tag:blogger.com,1999:blog-78754872329972227102024-02-07T07:17:28.616+01:00Discorso Comune Il blog delle Scienze UmaneAntonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.comBlogger78125tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-31692152607813385482023-04-17T09:48:00.022+02:002023-05-04T19:17:46.226+02:00La mafia<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEir6Ozbq55Xui4sN-EiR_T8DjYGXXa-B0AFu45omvqLoDK8DDDT91YQz9Oyx-HyxBP6rp7Gq1nKRItSN4FgyiMWWE4ZygJVG-Jhcgkiv7zjp4DDaTpFs_98NSj9qxJ_gCUdvaoruvVux9FGh7-1K1dVnXY3-XyfY_Mq01JB4bWAfNflN2-RaniHWJDp/s800/silenzio_mafia_trasparenza.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEir6Ozbq55Xui4sN-EiR_T8DjYGXXa-B0AFu45omvqLoDK8DDDT91YQz9Oyx-HyxBP6rp7Gq1nKRItSN4FgyiMWWE4ZygJVG-Jhcgkiv7zjp4DDaTpFs_98NSj9qxJ_gCUdvaoruvVux9FGh7-1K1dVnXY3-XyfY_Mq01JB4bWAfNflN2-RaniHWJDp/s16000/silenzio_mafia_trasparenza.jpg" /></a></div><br /><div style="text-align: left;"><br /></div><div style="text-align: left;">Le difficoltà di uno studio sociologico e antropologico della mafia sono molte. Si tratta di organizzazioni segrete, che non mancano di manifestarsi e di farsi perfino pubblicità, ma le cui dinamiche interne sono sottratte allo sguardo pubblico. Naturalmente non sono poche le realtà simili. La differenza è che se in altri casi è possibile ricorrere all’osservazione partecipante, nel caso della mafia infiltrarsi per osservare le organizzazioni dal di dentro non è propriamente una buona idea.</div>
<p>Una fonte preziosa di informazioni è rappresentata dalle indagini della magistratura, per le quali a loro volta sono fondamentali le confessioni dei pentiti di mafia. Quello che sappiamo sull’organizzazione attuale di Cosa Nostra, ad esempio, viene in gran parte della rivelazioni del bandito Tommaso Buscetta. Altri documenti importanti sono i <em>pizzini</em>, foglietti di carta usati dai boss mafiosi per far giungere comunicati e ordini agli affiliati. Interessante anche, come vedremo, è l’analisi di alcune espressioni musicali che celebrano i valori delle cosche mafiose e ne giustificano o perfino esaltano le azioni.</p>
<p>Quando si approcciano a una realtà sociale o culturale, il sociologo e l’antropologo cercano di sospendere il giudizio, di essere avalutativi e di vedere la realtà dall’interno. Nel caso della mafia questo sforzo si scontra con l’evidenza di avere a che fare con forme organizzative e culturali che rappresentano un male oggettivo; forte è il rischio, cercando di comprendere dall’interno, di finire per giustificare ciò che non è giustificabile.</p>
<h2 id="una-definizione-di-mafia">Una definizione di mafia</h2>
<p>Benché i giornali parlino ogni giorno di mafia, definire esattamente cosa essa sia e in che modo si differenzi da altre organizzazioni criminali non è facile. Un punto di partenza può essere la legge. L’articolo 416-bis del Codice penale definisce come segue una associazione di tipo mafioso:</p>
<blockquote><p>L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.</p>
</blockquote>
<p>Troviamo qui alcune parole chiave fondamentali per comprendere il fenomeno. Una organizzazione mafiosa è finalizzata all’ottenimento di profitti e vantaggi economici, ma questa è la caratteristica di qualsiasi organizzazione criminale. Che differenza c’è tra un gruppo mafioso e, ad esempio, il gruppo della fortunata serie televisiva <em>La casa di carta</em>, che in modo ingegnoso svaligia una banca? Hanno in comune il perseguimento di un illecito arricchimento, ma non gli altri elementi individuati da quell’articolo di legge. I protagonisti della serie non controllano il territorio, non assoggettano commercianti, artigiani e liberi professionisti e se anche le loro azioni possono suscitare qualche simpatia nell’opinione pubblica, non possono contare su un vero consenso sociale né avere la certezza che le loro attività saranno coperte da un atteggiamento omertoso.</p>
<p>Si può definire mafiosa, dunque, <em>una organizzazione che persegue con mezzi violenti un illecito arricchimento controllando un territorio e contando su un certo consenso sociale</em>. Caratteristica delle organizzazioni mafiose è anche la presenza di un sistema di affiliazione, con dei rituali e un codice comportamentale.</p>
<h2 id="le-mafie-italiane">Le mafie italiane</h2>
<p>L’origine della mafia è legata, nella stessa tradizione mafiosa, alla leggenda di tre fratelli cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che nel Quattrocento vennero esiliati sull’isola di Favignana per aver lavato con il sangue l’onore oltraggiato della sorella. Scontata la pena di trent’anni, Osso rimase in Sicilia, dove fondò la mafia, Mastrosso si spostò in Calabria, dando vita alla ‘ndrangheta e Carcagnosso raggiunse Napoli dove gettò le basi della camorra.</p>
<p>Naturalmente non c’è nulla di accertabile storicamente in questa storia, che però fa comprendere come le organizzazioni mafiose italiane, benché spesso in conflitto tra di loro, si riconoscano in una tradizione unitaria.</p>
<h3 id="la-mafia-siciliana">La mafia siciliana</h3>
<p>Nell’immaginario collettivo la mafia siciliana, Cosa nostra, è la mafia tout court.<sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-1" name="ref-footnote-1">1</a></sup> Le sue radici affondano nella Sicilia ottocentesca ancora feudale, nella quale un ruolo importante è svolto dai <em>gabellotti</em>, affittuari dei terreni che esercitavano la loro autorità sui contadini con metodi spesso violenti. Il loro ruolo non si limitava allo sfruttamento economico delle terre attraverso il controllo del lavoro dei braccianti. Essi rappresentavano nelle campagne l’unica autorità percepita, in grado di mantenere l’ordine e di governare la vita collettiva.</p>
<p>Questa struttura sociale resiste ai cambiamenti e giunge intatta alle soglie del processo di unificazione. Lo storico britannico John Dickie comincia la sua imponente storia della mafia siciliana con un episodio del 1872. Siamo in un periodo di grande sviluppo del commercio di agrumi, usati dagli inglesi per aromatizzare il tè. Il chirurgo Gaspare Galati ha ereditato un agrumeto organizzato come una avanzata azienda agricola; presto però scopre che il guardiano del fondo ruba limoni e mandarini allo scopo di squalificare l’azienda per poterla acquistare a un prezzo vantaggioso. Il chirurgo licenzia il guardiano, ma l’uomo assunto in sua sostituzione viene ucciso dopo poco tempo. Una serie di lettere anonime lo avvisano che ha sbagliato a licenziare un “uomo d’onore”. Galati si rivolge alla polizia, ma senza ottenere alcun sostegno. Comprende che dietro il guardiano c’è una organizzazione più vasta, che mette capo a una confraternita religiosa. Constatata l’impossibilità di far valere i suoi diritti in un contesto omertoso, il chirurgo è costretto ad abbandonare i suoi beni e a fuggire a Napoli, mandando però un memorandum al ministro dell’Interno sulla sua vicenda. Scrive Dickie:</p>
<blockquote><p>Racket della protezione, assassinio, dominio del territorio, competizione e collaborazione tra bande, e perfino un embrione di “codice d’onore”: dal memorandum del dottor Galati emergono elementi sufficienti per concludere che molti degli ingredienti centrali del metodo della mafia erano operativi negli agrumeti della Conca d’Oro già nei primi anni Settanta dell’Ottocento. (Dickie 2007, p. 21)</p>
</blockquote>
<p>La mafia attuale è il risultato delle profonde trasformazioni che hanno investito la società italiana alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Paese fino ad allora agricolo, nel giro di pochi anni l’Italia si è industrializzata ed ha ottenuto una rapida crescita economica, che ha avuto conseguenze anche sulla vita sociale, con la diffusione del benessere e del consumismo. Legata strettamente alla società rurale siciliana, la mafia si trova ad attraversare un periodo di crisi, anche per via della riforma agraria che spezza i grandi latifondi (1950), oltre che per l’azione repressiva dello Stato (nel ‘56 viene introdotto il confino di polizia). Ma la mafia non scompare. I mafiosi vengono incorporati nel sistema di potere della Democrazia Cristiana (Arlacchi 2007, p. 84), il loro campo d’azione si sposta dalla campagna alla città e le attività si concentrano sull’edilizia, poi trovare poi una lucrosa fonte di guadagni nel traffico di stupefacenti. </p>
<p>Nel 1957 avviene l’incontro tra la mafia siciliana e quella americana, guidata dal boss Lucky Luciano, in seguito al quale la mafia siciliana si dà una organizzazione verticistica, con la creazione di una commissione provinciale e di una commissione regionale, la <em>cupola</em>. Nel 1962 scoppia la cosiddetta prima guerra di mafia, tra i fratelli La Barbera, boss di Palermo centrale, ed altre famiglie, dovuta proprio alla volontà dei La Barbera di escludere le altre famiglie dalla cupola regionale e a divergenze riguardanti la vendita di una partita di eroina. Gli anni Settanta videro l’ascesa del boss corleonese Salvatore (Totò) Riina, che per ottenere il dominio incontrastato scatenò una sanguinosissima guerra contro i nemici interni – la seconda guerra di mafia – che fece circa mille vittime, tra cui il politico e sindacalista Pio La Torre e il generale dell’Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.</p>
<p>La risposta dello Stato è l’introduzione nel Codice penale dell’articolo 416-bis, che come abbiamo visto definisce l’associazione mafiosa e che consente di impiantare nel 1986, anche grazie alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, il cosiddetto maxi-processo, che porta a 346 condanne di mafiosi. La reazione di Cosa Nostra è feroce. A marzo del 1992 viene ucciso Salvo Lima, politico siciliano vicino al senatore (e più volte capo del governo) Giulio Andreotti; il 23 maggio a Capaci, presso Palermo, vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta; il 19 luglio in via D’Amelio a Palermo con un’autobomba vengono uccisi Paolo Borsellino e cinque poliziotti. Ma si tratta anche dell’inizio del declino: le due stragi suscitano un’ondata di indignazione nel Paese e spingono lo Stato a intensificare la lotta alla mafia, con un impegno che l’anno seguente porta all’arresto di Totò Riina. Il boss Bernardo Provenzano viene catturato nel 2006. L’arresto a Palermo, nel gennaio del 2023, dell’ultimo grande boss latitante, Matteo Messina Denaro, dà un duplice segnale: da un lato rappresenta una ulteriore vittoria dello Stato sulla mafia, dall’altro fa riflettere il fatto che un superlatitante non avrebbe potuto nascondersi a Palermo senza una vasta rete di connivenza ed omertà.</p>
<h3 id="la-ndrangheta">La ‘ndrangheta</h3>
<p>La ‘ndrangheta è la mafia calabrese, considerata una delle organizzazioni criminali più potenti a livello mondiale. Come per la mafia siciliana è difficile individuarne l’esatta origine storica. Si ha notizia certa della presenza di organizzazioni criminali nei decenni seguenti all’Unità, con la documentazione anche dei rituali di affiliazione, anche se vengono spesso usati termini come <em>camorra</em> o <em>picciotteria</em>. Sfuggente, capace di mimetizzarsi, la ‘ndrangheta salta alla ribalta della cronaca solo negli anni Settanta. Dopo essersi alimentata anche grazie agli investimenti statali in Calabria – soprattutto la costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria – la mafia calabrese dà il via ad una crudele stagione di sequestri di persona a scopo di estorsione, con lo scopo di acquisire la liquidità economica necessaria per fare il salto di qualità nei traffici criminali. Approfittando anche della crisi della mafia siciliana, essa entra nel traffico internazionale di droga, non senza però resistenza interne che portano alla prima guerra di ‘ndrangheta, tra il 1974 e il 1977, che vede vincitore il clan De Stefano, sostenitore delle nuove attività criminali. Una seconda guerra scoppia tra il 1985 e il 1991 a causa del conflitto tra le varie cosche (<em>‘ndrine</em>), inasprito dalla spartizione degli enormi guadagni legati al traffico internazionale di stupefacenti; termina dopo circa mille morti con la costituzione di una struttura verticistica simile a quella della mafia siciliana.</p>
<p>La ‘ndrangheta rappresenta oggi una realtà criminale solida, al centro dei traffici internazionali di droga, solidamente insediata anche nelle regioni del Nord Italia. A differenza della mafia siciliana ha sempre evitato lo scontro aperto con lo Stato e attentati eclatanti (pur non mancando di uccidere uomini politici scomodi), in qualche modo mimetizzandosi e penetrando con grande abilità nel mondo imprenditoriale e istituzionale, anche grazie al legame con la massoneria. L’incontro annuale dei vertici dell’organizzazione avviene a settembre al santuario della Madonna di Polsi (San Luca, comune della città metropolitana di Reggio Calabria).</p>
<h3 id="la-camorra">La camorra</h3>
<p>Se le origini di Cosa nostra sono legate al mondo rurale siciliano, la camorra è fin dall'inizio un fenomeno criminale cittadino. Alcune tesi la fanno risalire alla Napoli del Cinquecento, governata dagli spagnoli; certo essa era già una realtà consolidata a Napoli ai tempi dell’Unità. Nel 1892 attirarono l’attenzione nazionale i funerali fastosi del camorrista Ciccio Cappuccio, <em>il re di Napoli</em>, figura quasi venerata dal popolo e rispettata anche dalle autorità civili. </p>
<p>La camorra attuale prende forma negli anni Cinquanta del secolo scorso, anche grazie all’apporto proveniente da boss mafiosi siciliani, mandati a Napoli in soggiorno obbligato. Negli anni Settanta emerge la figura di Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, forte degli stretti legami con la ‘ndrangheta dei De Stefano; come presto vedremo, cerca di esportare la nuova organizzazione anche in Puglia. La decisione di Cutolo di imporre una tassa sulle sigarette esportate porta a uno scontro con la mafia siciliana che causa centinaia di vittime e termina con la sconfitta di Cutolo. Negli anni Ottanta emerge la figura di Francesco Schiavone, detto Sandokan, capo del clan dei Casalesi (da Casal di Principe), che si dà una struttura verticistica simile a quella della mafia siciliana e conquista l’egemonia su tutti i clan della Campania. Dopo lo smantellamento dell’organizzazione, grazie a diversi membri anche importanti che sono diventati collaboratori di giustizia, la camorra si è disseminata in una moltitudine di clan, spesso in sanguinoso contrasto tra loro. Nel 2004-2005 la faida di Scampia, scontro tra il clan Di Lauro e i cosiddetti Scissionisti, ha fatto più di settantaquattro morti, tra cui due innocenti uccisi a causa di uno scambio di persona. Una seconda faida è avvenuta, sempre a Scampia, all’interno del clan degli Scissionisti, tra il 2012 e il 2014. </p>
<h3 id="la-sacra-corona-unita">La Sacra Corona Unita</h3>
<p>Il 5 gennaio del 1979 il boss della camorra Renato Cutolo tiene all’hotel Florio di Foggia un incontro al quale invita diversi membri della malavita pugliese, con lo scopo di affiliarli e iniziarli alla Nuova Camorra Organizzata; in seguito viene organizzato a Galatina un secondo incontro, al fine di diffondere l’organizzazione in Salento. Nelle intenzioni di Cutolo la nuova organizzazione avrebbe dovuto riscuotere una tangente su tutti gli affari della mafia pugliese, legati in particolare al contrabbando; questa sudditanza tuttavia suscita presto la ribellione dei boss pugliesi, favorita anche dall’arresto di Cutolo.</p>
<p>Nel 1983 nasce nel carcere di Bari, per iniziativa del boss Pino Rogoli, la Sacra Corona Unita, che nelle intenzioni doveva essere una mafia pugliese autonoma, anche se fortemente legata alla ‘ndrangheta. Ma l’organizzazione non mostra la stessa forza e capacità organizzativa delle altre organizzazioni mafiose e si indebolisce anche per l’alto numero di pentiti, che consentono allo Stato di intervenire in modo efficace, anche grazie al fatto che a Bari “non è mai esistita una sottocultura omertosa e mafiosa”, come osserva l’ex questore Piernicola Silvis (Silvis, 2022, p. 117).</p>
<h3 id="la-quarta-mafia-foggiana">La quarta mafia foggiana</h3>
<p>I mafiosi foggiani mostrano presto insofferenza sia verso la nuova camorra organizzata di Cutolo che verso la Sacra Corona Unita guidata dai mafiosi salentini. Guidati dai boss Giosuè Rizzi e Rocco Moretti, affermano la propria autonomia nel maggio del 1986 con un sanguinoso attacco in un locale del centro storico di Foggia, il circolo Bacardi. Nell’attentato restano uccise quattro persone, mafiosi della Sacra Corona Unita.</p>
<p>La nuova mafia foggiana, denominata società foggiana o quarta mafia, si distingue per la ferocia e il controllo capillare del territorio. I suoi campi d’azione sono il racket delle estorsioni e il controllo del mondo economico e politico. Una particolarità della mafia foggiana è il suo impatto sulla vita cittadina. Come scrive il procuratore Francesca Pirrelli, </p>
<blockquote><p>A Palermo, a Reggio Calabria, le organizzazioni criminali controllano la microcriminalità impedendole di trasformare la vita della gente in un inferno quotidiano. Perché questo garantisce una convivenza pacifica e il consenso. Bene, qui è il contrario. Criminalità organizzata e microcriminalità coesistono e condividono interessi. La giornata di un foggiano è segnata quotidianamente da furti d’auto, furti in appartamento, rapine, estorsioni, spesso con uso sconsiderato di esplosivi ad alto potenziale. Non c’è nulla della vita di ciascuno che venga risparmiato. L’integrità fisica e patrimoniale, il libero esercizio dell’attività commerciale o imprenditoriale (Bonini, Foschini, 2019, p. 181)</p>
</blockquote>
<h2 id="i-modelli-organizzativi">I modelli organizzativi</h2>
<p>La mafia siciliana si caratterizza per una rigorosa organizzazione gerarchica, quasi militare. Gli <em>uomini d’onore</em>, per così dire i soldati semplici della mafia, sono organizzati in gruppi di dieci e guidati dai <em>capidecina</em>. Questi a loro volta dipendono dal <em>boss</em>, il capo della famiglia mafiosa, che può essere affiancato da consiglieri e che viene eletto. Più famiglie vicine sono rappresentate da un <em>capomandamento</em> che entra a far parte della commissione provinciale dell’organizzazione. A loro volta le commissioni provinciali scelgono i rappresentanti da mandare presso la <em>cupola</em>, il vertice dell’organizzazione mafiosa, con competenze sull’intera regione.</p>
<p>Anche la ‘ndrangheta ha una struttura gerarchica, con una serie di livelli, chiamati <em>dote</em>. La cellula di base è la ‘ndrina, una organizzazione per lo più famigliare che ha il controllo su una porzione limitata di territorio, come un paese o un quartiere. Più ‘ndrine formano una <em>locale</em>, una struttura di coordinamento che ha almeno 49 membri, e la cui creazione è stabilita dalla locale di San Luca. Ogni locale è guidata da tre persone: il <em>capobastone</em>, che ne è il responsabile; il <em>contabile</em>, che si occupa dell’aspetto finanziario, ossia della gestione dei proventi delle attività criminali; il <em>criminine</em>, che si occupa delle attività propriamente criminali. La locale a sua volta ha due livelli, la società minore e la società maggiore, che esiste solo in alcune locali. All’interno di questi livelli esiste una attenta distinzione di ruoli gerarchici, che comprende nella società minore il <em>picciotto</em>, il <em>camorrista</em> e lo <em>sgarro</em>; in quella maggiore vi sono i livelli ulteriori del <em>santista</em>, il <em>vangelo</em>, il <em>quartino</em> e il <em>padrino</em>. Ogni livello ha un suo santo protettore e tutta la progressione criminale è scandita da precisi rituali; man mano che si procede verso l’alto si stringono inoltre legami con la massoneria. L’organizzazione della ‘ndrangheta è rappresentata con la figurazione dell’<em>albero della scienza</em>, una quercia il cui fusto rappresenta il <em>capobastone</em>, i rami i diversi membri, mentre le foglie che cadono sono gli <em>infami</em>, coloro che meritano di morire per aver tradito l’organizzazione.</p>
<p>La camorra ha invece un modello organizzativo caotico. Esistono una molteplicità di clan, senza ruoli predefiniti e soprattutto senza strutture sovraordinate che siano anche in grado di risolvere i conflitti. Nel mondo camorristico la leadership è dunque esposta maggiormente all’assalto di gruppi emergenti.</p>
<h2 id="il-carattere-interclassista-delle-mafie">Il carattere interclassista delle mafie</h2>
<p>Le organizzazioni mafiose hanno un carattere transclassista. Se la manovalanza proviene dagli strati più svantaggiati della società – e la presenza di un ampio strato sociale in stato di povertà o addirittura miseria si rivela dunque fondamentale per reclutare affiliati addetti alle azioni più violente – le organizzazioni mafiose annoverano ai vertici membri della borghesia e si avvalgono del servizio di professionisti del mondo del diritto e della finanza. Sarebbe un errore interpretativo dunque scorgere nelle organizzazioni mafiose una forma di lotta di classe o comunque una rivalsa sociale delle classi più svantaggiate. È vero tuttavia che tali organizzazioni possono offrire ad alcuni soggetti la possibilità di ottenere attraverso attività criminali una condizione economica e un prestigio sociale apprezzabili; si tratta, in altri termini, di organizzazioni che consentono una certa mobilità sociale a chi si dimostri dotato di spregiudicatezza ed abilità criminale.</p>
<h2 id="i-riti-di-affiliazione">I riti di affiliazione</h2>
<p>Nelle organizzazioni mafiose si entra attraverso riti di affiliazione che hanno elementi in comune con quelli della massoneria. Nella mafia siciliana si tratta del rito della <em>punciuta</em>. Il candidato viene presentato da un padrino agli “uomini d’onore” della famiglia. Con uno spillo gli si punge il polpastrello dell’indice. Il sangue cola su un santino, che poi viene bruciato. Il candidato quindi giura: “Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”. Nella mafia siciliana il rito avviene una sola volta, mentre nella ‘ndrangheta sono previsti riti diversi a seconda dei vari gradi dell’organizzazione cui si accede. Come abbiamo visto, la ‘ndrangheta ha una organizzazione fortemente gerarchica e prevede diversi gradi cui si accede con appositi rituali. Il livello ultimo è la Santa, una sorta di cupola della ‘ndrangheta. Per accedere al grado di <em>santista</em> occorre sottoporsi a un apposito rituale, durante il quale si invocano le figure di Garibaldi, Mazzini e La Marmora. Nella camorra invece l’importanza dei riti di iniziazione si è andata perdendo nel tempo, anche se Raffaele Cutolo ha elaborato un complesso sistema rituale per l’iniziazione alla sua Nuova Camorra Organizzata (Gavini, s.d.).</p>
<p>Il ruolo di questi rituali non è diverso da quello dei riti di passaggio studiati dagli antropologi. Con il giuramento, l’affiliato entra a fare parte di una organizzazione che prenderà il controllo totale sulla propria identità. Una volta avvenuto, la sua vita non sarà più la stessa. La solennità e la sacralità del rito trasmettono all’affiliato un messaggio fondamentale: la mafia non è una organizzazione qualsiasi, dalla quale si possa uscire di propria volontà, ma una comunità che non ammette defezioni e tradimenti. Il rituale inoltre serve a distinguere un dentro e un fuori, separando nettamente i membri dell’organizzazione, gli iniziati, dai semplici fiancheggiatori.</p>
<h2 id="mafia-e-contesto-sociale">Mafia e contesto sociale</h2>
<p>Le mafie possono prosperare in qualsiasi contesto, ed ormai sono radicate anche in regioni del Centro-Nord Italia, nelle quali praticano i loro affari senza dare nell’occhio, non mancando in qualche caso anche di infiltrarsi nelle istituzioni. Vi sono contesti sociali però particolarmente favorevoli allo sviluppo e alla persistenza delle mafie. In alcuni casi si tratta di una vero e proprio sostegno attivo. Un esempio tra tutti: nell’estate del 2015 una folla ha cercato di impedire l’arresto del latitante napoletano Luigi Cuccaro, capo di uno dei principali clan della camorra. Le foto dell’arresto mostrano il boss che manda un bacio ai suoi sostenitori prima di entrare nell’auto dei carabinieri. In alcuni contesti i boss mafiosi sono considerati quasi come eroi popolari e godono di un sostegno più o meno incondizionato.</p>
<p>In altri casi il sostegno è indiretto. Le organizzazioni mafiose possono contate, più che sull’adesione entusiastica, sulla distrazione. La mafia può operare indisturbata i propri traffici e, se necessario, compiere i propri agguati con la certezza che nessuno denuncerà quello che ha visto. È il fenomeno dell’<em>omertà</em>, senza il quale le mafie difficilmente potrebbero sopravvivere. Il termine deriva da <em>umiltà</em> ed indica un atteggiamento di silenzio, di copertura e di mancata denuncia dei crimini mafiosi. Se è vero che buona parte delle azioni della mafia – ad esempio quelle finanziarie – avvengono nel buio, è anche vero che molte altre, compresi fatti di sangue, avvengono alla luce del sole ed alla presenza di testimoni; senza un atteggiamento omertoso sarebbe piuttosto semplice individuare i responsabili dei crimini ed assicurarli alla giustizia. La paura è senz’altro uno degli elementi costitutivi dell’omertà. In un contesto di sfiducia nello Stato, la minaccia della vendetta mafiosa appare più realistica della protezione statale. Ma la paura da sola non basta a giustificare la complicità di una intera comunità. Molto contribuiscono una visione del mondo individualistica, una certa indifferenza a quello che accade nella comunità e la tacita accettazione della legge del più forte in campo sociale. I contesti nei quali prosperano le organizzazioni mafiose sono caratterizzati da una società civile frammentata, incapace di individuare i propri problemi e di affrontarli in modo compatto, bloccata dall’individualismo e dalla sfiducia. </p>
<h2 id="mafie-e-religiosità">Mafia e religiosità</h2>
<p>Nelle città siciliane le festività religiose, in particolare quelle legate alla Madonna, sono un elemento centrale dell’identità ed avvengono con enorme affluenza popolare. Tali sono, ad esempio, il Varo dell’Assunta di Messina e la festa di Sant’Agata a Catania. Si tratta di feste che richiedono una organizzazione lunga e complessa nella quale significativa è l’infiltrazione delle famiglie mafiose. Il prestigio particolare dell’evento fa sì che esso sia sfruttato dai mafiosi per mostrare alla città intera il proprio potere e la presenza per così dire istituzionale, accanto al potere politico e a quello religioso. Dinamiche simili si verificano in Campania; a Napoli, ad esempio, la Festa dei Gigli è spesso usata dai boss della camorra per enfatizzare il proprio ruolo pubblico. Nel 2011 due boss parteciparono alla festa a bordo di un’auto di lusso, acclamati con l’accompagnamento della colonna sonora del film <em>Il Padrino</em>. Frequente è anche la pratica dell’<em>inchino</em>: la statua portata in processione viene fermata e fatta inchinare in segno di rispetto davanti alla casa del boss locale. Come abbiamo visto, in Calabria il santuario della Madonna di Polsi è il luogo in cui si tiene ogni anno il meeting dei boss della ‘ndrangheta, in occasione della festa della Madonna.</p>
<p>Tutto ciò induce a riflettere sui rapporti tra mafia e Chiesa cattolica, o più in generale tra mafia e cattolicesimo. Alcuni autori scorgono nella mafia la presenza di aspetti culturali del cattolicesimo, messi al servizio di una visione del mondo criminale. Scrive Augusto Cavadi:</p>
<blockquote><p>È noto che la mafia si è configurata nell’ambito di una cultura “sacrale”, più precisamente “cattolica”, dalla quale ha mutuato (come risulta anche da rivelazioni recenti di affiliati) simboli, linguaggi, valori: il giuramento, l’obbedienza agli anziani, la cura della famiglia, la fedeltà, l’onore, il rispetto della castità delle donne… sono tutti elementi tipici di una mentalità etico-religiosa che, di fatto, nell’Italia meridionale è stata informata dalla versione tridentina del cattolicesimo. (Cavadi 2006, p. 95)</p>
</blockquote>
<p>Al di là di questi aspetti culturali si può riflettere su una circostanza storica. Il cattolicesimo è stato un elemento centrale dell’identità meridionale fino all’Unità d’Italia. Come è noto, il processo unitario è stato apertamente contrastato dalla Chiesa cattolica. Un contrasto che è avvenuto soprattutto aizzando contro il nuovo Stato le plebi, disorientate dal crollo del regno borbonico e esasperate da provvedimenti come la leva obbligatoria. Questo malessere, orientato e strumentalizzato, si è espresso nel brigantaggio, ma probabilmente ha influito anche nella costruzione dell’identità delle mafie come organizzazioni politiche radicate nella cultura religiosa territorio ed in opposizione al potere politico dello Stato.</p>
<h2 id="la-musica-della-mafia">La musica della mafia</h2>
<p>Tra il 2000 e il 2005 vengono pubblicati in Germania con il titolo <em>La musica della mafia</em> tre cd che raccolgono le canzoni della ‘ndrangheta. Si tratta della musica in dialetto calabrese che tradizionalmente veniva e viene venduta sulla bancarelle, in occasione delle principali festività religiose locali. I canti offrono uno spaccato del mondo mafioso visto dall’interno, con i suoi presunti valori, primo fra tutti l’onore, le sue regole, la condanna senza appello per chi si macchia di <em>infamità</em>. Ma non manca una canzone che racconta e celebra l’omicidio del generale Dalla Chiesa, colpevole di essersi messo contro una forza più grande di lui.</p>
<p>Nel Napoletano la celebrazione della mafia non è infrequente nella musica neomelodica. Snobbato nelle regioni del centro-nord, questo genere musicale ha un successo enorme presso le classi popolari delle regioni meridionali. I concerti di cantanti neomelodici possono avere migliaia di spettatori e le vendite, a Napoli e in altre città meridionali, competono con quelle di grandi artisti internazionali. Al tempo stesso i cantanti neomelodici, compresi i più famosi, non si sottraggono all'accompagnamento di cerimonie quali matrimoni e compleanni; e può succedere che si tratti di cerimonie di famiglie appartenenti a clan mafiosi. Ma il rapporto tra cantanti neomelodici e ambienti mafiosi va ben al di là di questo contributo per così dire professionale. Diversi cantanti neomelodici sono <em>organici</em> alle mafie: hanno rapporti stretti con mafiosi, di cui in qualche caso esaltano le imprese nelle loro canzoni, e può accadere perfino che loro stessi siano implicati in azioni criminose.</p>
<p>Significativo è il caso della canzone <em>'O capoclan</em> del neomelodico Nello Liberti, che si ritiene commissionata dal boss di Ercolano Vincenzo Oliviero. L'analisi del testo della canzone può essere utile per apprezzare il particolare contributo di questa forma musicale alla creazione di una cultura della mafia. Ecco alcuni passi (tradotti in italiano):</p>
<p></p><blockquote>Il capoclan è un uomo serio
<br />non è vero che è cattivo
<br />ma ragionare con il cuore non si può.
<br />Il capoclan no, non sbaglia,
<br />perché per la famiglia
lui è il capo <br />e deve saper comandare.
<br />[....]
<br />Da piccolo non ha potuto mai studiare
<br />per sfortuna se ne andò a lavorare
<br />si sacrificava per mangiare la sera
<br />volle la famiglia nella miseria.
<br />Questa cosa non l'ha potuta sopportare
<br />se ha sbagliato è stato per necessità
<br />certo questo l'ha voluto Dio
<br />se ora è un uomo vero in mezzo alla strada.
<br />E se ha deciso così
il cuore a chi lo deve dare?
<br />È capo e sa vivere
e noi lo dobbiamo rispettare.</blockquote><p></p>
<p>La carriera del mafioso è giustificata con le condizioni difficili nelle quali si è trovato a vivere, come se non esistesse alcuna alternativa alla vita criminale. Che effettivamente criminale non è: il mafioso fa cose che la legge condanna, ma che sono giuste, perfino doverose nell'ottica del bene della sua famiglia, che è il valore supremo. Il capoclan diventa un modello umano, l'esempio di un uomo che non si è lasciato travolgere dalla circostanze, ma ha preso in mano il suo destino. </p>
<h2 id="interpretazioni-della-mafia">Interpretazioni della mafia</h2>
<h3 id="la-mafia-come-fenomeno-culturale">La mafia come fenomeno culturale</h3>
<p>Le prime letture della mafia, considerate superate dal punto di vista scientifico ma ancora operanti nell’opinione pubblica, vedono in essa l’espressione culturale di una società arretrata come quella meridionale. Se la mafia esiste è perché i meridionali sono fatti in un certo modo: non hanno, anche per cause storiche, fiducia nello Stato, hanno uno spiccato senso dell’onore e della dignità personale che li porta alla vendetta personale e non riescono a percepire la comunità come un valore. Su quest’ultimo punto ha avuto grande influenza la tesi del <em>familismo amorale</em>, elaborata dal sociologo statunitense Edward C. Banfield nel 1958 (<em>The Moral Basis of a Backward Society</em>). Studiando un paesino della Basilicata, Banfield era giunto alla conclusione che l’arretratezza di quel paesino era dovuto a un particolare tratto antropologico: l’incapacità di agire considerando non solo gli interessi della propria famiglia, ma quelli della più ampia comunità. Henner Hess, il più importante rappresentante di questa corrente interpretativa, ha visto nella mafia l’espressione di una <em>doppia morale</em> dovuto al dominio spagnolo della Sicilia. La presenza di un governo oppressivo avrebbe spinto il popolo siciliano a giustificare l’opposizione anche violenta al potere ed a cercare forme di auto-organizzazione di cui la mafia sarebbe l’espressione.</p>
<p>Il limite di queste letture è che, ancorando la mafia a una società agricola, caratterizzata dal latifondo, non riescono a rendere conto della sua sopravvivenza quando quella società scompare. La mafia, come ogni gruppo sociale, ha una sua cultura, e vi sono legami significativi tra questa cultura e la cultura dei luoghi in cui si sviluppa, ma se da un lato è rischioso ridurre la cultura meridionale alla mafia, dall’altro è fuorviante considerarla solo espressione antropologica, trascurando gli aspetti economici e politici.</p>
<h3 id="danilo-dolci-il-sistema-mafioso-clientelare">Danilo Dolci: il sistema mafioso-clientelare</h3>
<p>Sociologo sia pure non in senso accademico (ha abbandonato gli studi di architettura per dedicarsi alla sua attività sociale), <a href="http://www.discorsocomune.info/2015/05/danilo-dolci.html">Danilo Dolci</a> ha dedicato tutta la sua vita, a partire dal 1952, allo sviluppo della Sicilia nord-occidentale, mettendo a punto un particolare metodo, la maieutica reciproca, sul quale ci soffermeremo trattando della lotta alla mafia. La riflessione di Dolci, che si sviluppa sempre in stretta relazione con la sua prassi educativa e politica dal basso, è centrata sulla differenza tra <em>potere</em> e <em>dominio</em>. Giunto nel ‘52 a Trappeto, poverissimo borgo di pescatori, Dolci scopre una comunità nella quale perfino la morte per fame dei bambini è accettata con rassegnazione. Dal confronto con la gente del borgo, documentato dal volume <em>Fare presto (e bene) perché si muore</em> (1956), emerge una situazione di <em>radicale impotenza</em>, di incapacità di pensare qualsiasi cambiamento sociale. Per Dolci è evidente la necessità di una <em>conquista del potere</em> intesa positivamente come possibilità di agire. Se questo è il potere, la sua degenerazione è il <em>dominio</em>, una situazione nella quale le possibilità vitali sono soltanto di alcuni, e crescono sulla e grazie alla impotenza generalizzata. Per Dolci questa è la realtà nella quale si inserisce l’azione della mafia, ma non caratterizza solo la Sicilia; la nostra società in generale gli appare viziata dal <em>dominio</em> e bisognosa di una conquista del potere da parte delle comunità.</p>
<p>Sul piano delle relazioni sociali il dominio funziona in Sicilia, ma non solo, grazie ad una particolare struttura organizzativa che Dolci chiama <em>sistema mafioso-clientelare</em>. Un gruppo di potere ha un leader, ma è strutturato in modo tale che sono possibili rapporti aperti tra tutti i suoi membri. In una situazione di dominio la società è invece atomizzata. La comunità non è in grado di organizzarsi per affrontare i problemi: in una visione individualistica esistono solo problemi individuali e soluzioni individuali. Si inserisce qui quella politica che fa tutt’uno con la mafia. Compito della buona politica è quello di favorire la <em>fiducia sistemica</em>, ossia la convinzione che i propri diritti saranno riconosciuti in una società giusta. Il sistema clientelare-mafioso invece sostituisce la fiducia sistemica con la <em>fiducia posizionale</em>: ognuno deve sapere che è possibile ottenere i propri diritti, o magari vantaggi personali cui non si ha diritto, se ci si mette al servizio di un rappresentante politico, che a sua volta sarà al servizio della mafia. In questo modo gli individui perseguono i propri scopi personali, consegnando la comunità ad una organizzazione politica criminale.</p>
<h3 id="pino-arlacchi-la-mafia-imprenditrice">Pino Arlacchi: la mafia imprenditrice</h3>
<p>Ne <em>La mafia imprenditrice</em> (1983) il sociologo Pino Arlacchi, tra i creatori della Direzione Investigativa Antimafia (DIA), legge le trasformazioni delle mafie alla luce del concetto di <em>mafioso imprenditore</em>. Il sociologo è consapevole che associare la figura del mafioso a quella dell’imprenditore può suscitare perplessità, perché imprenditore è colui che introduce qualche forma di innovazione in ambito economico. Ma c’è innovazione anche nell’economia mafiosa, e consiste appunto nel metodo mafioso. Scrive Arlacchi:</p>
<blockquote><p>I mafiosi imprenditori hanno, infatti, introdotto innovazioni nella organizzazione delle loro imprese. La più importante di queste innovazioni consiste proprio nel trasferimento del metodo mafioso nell’organizzazione aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni dell’impresa. L’incorporazione del metodo mafioso nella produzione di merci e servizi ha permesso e permette a tutta una categoria di imprese di godere – come ogni impresa che innova – di un profitto monopolistico precluso alle altre unità economiche. (Arlacchi, 1983, p. 100)</p>
</blockquote>
<p>Studiare la mafia per Arlacchi significa dunque studiare l’organizzazione dell’impresa mafiosa. Il successo dell’impresa mafiosa consiste in primo luogo nella possibilità di scoraggiare, con metodi violenza, la concorrenza, assicurandosi così un monopolio nel territorio, in particolare nel campo dell’edilizia. In secondo luogo, una impresa mafiosa ha vantaggi che le vengono dal mancato rispetto delle regole relative al pagamento dei contributi previdenziali e assicurativi dei lavoratori; il carattere particolare dell’impresa scoraggia sia i controlli degli organi addetti che le proteste dei lavoratori. Infine, una impresa mafiosa ha una enorme disponibilità di denaro, che le proviene dai traffici illeciti, e anche questa circostanza le dà un vantaggio sul mercato, rendendola più competitiva delle altre imprese, che sono costrette a ricorrere in caso di necessità a finanziamenti esterni. Queste imprese mafiose, così ramificate e inserite nel tessuto economico, reggono su una struttura sociale ancora tradizionale: alla base c’è la creazione di reti famigliari o amicali, le uniche che consentono quella sicurezza di relazioni senza la quale l’impresa mafiosa rischia di essere scoperta e smantellata.</p>
<h3 id="davide-gambetta-la-mafia-come-industria-della-protezione-privata">Davide Gambetta: la mafia come industria della protezione privata</h3>
<p>Il sociologo Davide Gambetta ha proposto una interpretazione della mafia come <em>industria della protezione privata</em> che ha avuto grande successo ed è stata applicata anche all’analisi di organizzazioni mafiose di altre parti del mondo. Per Gambetta le organizzazioni mafiose agiscono come imprese che offrono un bene particolare: la protezione in una situazione di mancanza di fiducia. In un contesto sociale caratterizzato da una generale sfiducia qualsiasi interazione economica appare rischiosa. In una tale situazione è possibile astenersi dalla interazione, ad esempio dal fare un acquisto, o intraprenderla; ma se la sfiducia è diffusa, è probabile che prevalga la prima scelta, rendendo dunque limitato il mercato. Qui interviene la figura del mafioso, che si differenzia dal criminale comune perché “<em>agisce in qualità di garante di determinate transazioni</em>” (Gambetta, 1989-1990, p. 321; corsivo nel testo). Il mafioso garantisce che nello scambio nessuno truffi l’altro e che la transazione possa avvenire in modo corretto. Questo favorisce in qualche modo lo sviluppo del mercato ma, osserva Gambetta, si tratta di un mercato comunque limitato, senza l’ampiezza possibile in una condizione di libero mercato. Poiché la sua funzione principale è garantire gli accordi, la mafia si sviluppa in un contesto economico caratterizzato appunto da accordi tra attori economici, vale a dire l’esatto opposto di un sistema di libera concorrenza. </p>
<p>L’importanza del libero mercato, nota Gambetta, viene in genere enfatizzata dai conservatori; in alcuni contesti tuttavia esso può avere una funzione progressista, eliminando privilegi che nascono da sistemi di appartenenza. “Non escludo – scrive – che perseguire in forma generalizzata politiche di libero mercato per certi beni possa essere impossibile, indesiderabile o controproducente; eppure credo che in parecchi mercati locali nel Mezzogiorno possa avere ancor oggi un valore rivoluzionario” (ivi, p. 325). Di qui la conclusione che è nel titolo stesso di un suo saggio: se è vero che la mafia elimina la concorrenza – perché il sistema di alleanze e di garanzie finisce per favorire alcuni a discapito di altri – è anche vero il contrario, ossia che un mercato libero, nel quale ognuno possa affermarsi in virtù della sua abilità e della qualità del suo lavoro, può porre le basi per la fine del fenomeno mafioso. </p>
<h3 id="marco-santoro-la-mafia-come-sistema-politico">Marco Santoro: la mafia come sistema politico</h3>
<p>Alternativa alla lettura della mafia come espressione culturale e come impresa economica è quella della mafia come sistema politico alternativo allo Stato. È questa la lettura di Marco Santoro, sociologo dell’Università di Bologna, in <em>Mafia Politics</em> (2022). Santoro critica le interpretazioni economiche della mafia, come quella di Gambetta, accusandole soprattutto di ridurre la complessità del fenomeno mafioso ad una sola delle sue componenti. Se i mafiosi offrono protezione, è anche vero che essi sono in grado di creare le condizioni che rendono necessaria la protezione stessa; e questa azione non è più economica, ma politica. Per Santoro la mafia è un fenomeno complesso, che include aspetti religiosi, morali, economici, perfino sessuali, ma ritiene che l’aspetto centrale sia quello politico. Se identifichiamo la politica con l’attività dello Stato, evidentemente una simile lettura è impossibile; al più potremo considerare la mafia come anti-Stato. Ma lo Stato, afferma Santoro, è solo una delle organizzazioni politiche possibili. Le società possono organizzarsi in molti modi diversi e alternativi rispetto allo Stato, come mostrano antropologi anarchici come David Graeber. La mafia dunque può essere considerata una sorta di organizzazione politica popolare, alternativa a quella dominante. Se lo Stato attuale è caratterizzato sul piano economico dal capitalismo e sul piano sociale dal dominio della classe borghese, nella mafia Santoro scorge la persistenza di un ethos premoderno. La modernità ha combattuto le gerarchie sociali promuovendo l’ascesa dei ceti subalterni, nella mafia si è invece perseguita l’ascesa sociale senza contestare la presenza di una gerarchia sociale. E questa ascesa viene ottenuta con un’etica che è affine più all’etica guerriera delle classi aristocratiche che all’etica moderna della partecipazione politica: “L’etica guerriera delle vecchie classi aristocratiche (in Sicilia, la cultura baronale; in Giappone l’ethos dei samurai) è l’orizzonte culturale dei mafiosi, non lo spirito del capitalismo e nemmeno una cultura civica borghese (Santoro, 2022, p. 3; trad. mia). </p>
<p>Non si tratta, puntualizza Santoro, di pensare la mafia come altro Stato, ma di essere consapevoli che lo Stato non esaurisce la sfera del politico. Santoro semplifica la sua tesi con uno schema: il grande insieme della politica comprende due insiemi, lo Stato e la mafia, che si intersecano parzialmente. La particolarità della mafia è che, mentre gli antropologi hanno documentato da tempo l’esistenza di società senza Stato, la mafia si presenta dove lo Stato già esiste. La mafia, conclude Santoro, “è ‘l’arte di non essere lo Stato”, pur facendo uso delle sue risorse e forme e, ovviamente, cambiando il loro significato” (ivi, p. 237; trad. mia).</p>
<h2 id="lantimafia">L’antimafia</h2>
<p>L’azione di contrasto alla mafia ha due livelli: uno istituzionale e uno sociale e culturale. Quello istituzionale a sua volta ha due aspetti. Uno è il contrasto attraverso l’azione della polizia e della magistratura, che dopo le stragi del 1992 è diventato particolarmente efficace, portando all’arresto dei principali boss mafiosi. L’altro è la realizzazione di una <em>buona politica</em> a livello soprattutto locale, la costituzione di una classe politica permeata dai valori dell’antimafia, integerrima e preoccupata del bene comune. Da questo punto di vista c’è ancora molto da fare. Lo scioglimento per mafia di diversi consigli comunali – non solo di paesi, ma anche di città di media grandezza come Foggia – mostra quanto la politica, a livello locale e, almeno in parte, anche a livello nazionale, non sia ancora libera dai legami con la mafia.</p>
<p>A livello sociale e culturale l’azione antimafia agisce cercando di costruire una società civile sana, combattendo la sfiducia e l’individualismo. È questo il lavoro portato avanti per decenni, a partire dalla prima metà degli anni Cinquanta, dal citato Danilo Dolci. Il suo metodo è stato quello della <em>maieutica reciproca</em>, una pratica dialogica che aveva lo scopo di costituire una comunità in grado di analizzare i propri problemi e di affrontarli grazie alla pressione nonviolenta. Da una delle riunioni di maieutica reciproca è nata l’idea di realizzare una diga sul fiume Jato, la cui realizzazione è stata autorizzata dalla Cassa per il Mezzogiorno dopo un prolungato digiuno del sociologo. Negli anni Sessanta raccoglie testimonianze per denunciare il rapporto tra mafia e politica, giungendo ad accusare personaggi di spicco della politica nazionale, ma esce sconfitto da un processo per diffamazione.<sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-2" name="ref-footnote-2">2</a></sup></p>
<p>Peppino Impastato invece ha lavorato per dissacrare la mafia, attraverso lo strumento della radio. Le sue trasmissioni su Radio Aut, fondata a Terrasini (Palermo) nel 1977, mettevano in ridicolo il boss mafioso locale, Tano Badalamenti, denunciando anche i rapporti con i politici locali. Peppino Impastato è stato assassinato il 9 maggio 1978.</p>
<p>A Napoli la camorra ha ucciso don Peppe Diana, impegnato nella denuncia delle attività della mafia e nella costruzione di una alternativa attraverso la sua attività di parroco presso la parrocchia San Nicola da Bari a Casal di Principe. Era il periodo della guerra dei Casalesi e don Peppe Diana era colpevole, tra l’altro, di aver diffuso nelle parrocchie un documento di dura condanna della camorra dal titolo <em>Per amore del mio popolo non tacerò</em>. Il suo assassinio avvenne in chiesa, il 19 marzo 1994, mentre si apprestava a celebrare la messa. </p>
<p>Dall’attività di un altro sacerdote, don Luigi Ciotti, è nata nel 1995 <em>Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie</em>, un coordinamento che unisce centinaia di associazioni, gruppi, scuole in Italia e nel mondo con lo scopo di sensibilizzare la società civile. Un importante risultato è stato raggiunto con la legge 7 marzo 1996, n. 109, fortemente voluta dall’associazione, che stabilisce l’uso sociale dei beni sottratti alle mafie. </p>
<h2 id="bibliografia-essenziale">Bibliografia essenziale</h2>
<p>Arlacchi P., <em>La mafia imprenditrice</em>, il Saggiatore, Milano 2007.</p>
<p>Bonini C., Foschini G., <em>Ti mangio il cuore. Nell’abisso del Gargano. Una storia feroce</em>, Feltrinelli, Milano</p>
<p>Cavadi A., <em>Per una pedagogia antimafia</em>, in Id. (ed), <em>A scuola di antimafia</em>, DG Editore, Trapani.</p>
<p>Dickie J., <em>Cosa nostra. Storia della mafia siciliana</em>, Laterza, Roma-Bari 2007.</p>
<p>Gambetta D., <em>La mafia elimina la concorrenza. Ma la concorrenza può eliminare la mafia?</em>, in “Meridiana”, n.7/8, settembre 1989-gennaio 1990.</p>
<p>Gambetta D., <em>La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata</em>, Einaudi, Torino 1992.</p>
<p>Gavini D., <em>Riti di affiliazione</em>, in <em>Culti e mafie</em>, url: <a class="url" href="http://cultiemafie.uniroma2.it/riti-di-affiliazione/" target="_blank">http://cultiemafie.uniroma2.it/riti-di-affiliazione/</a></p>
<p>Hess H., <em>Mafia</em>, Laterza, Bari 1973.</p>
<p>Luca E., <em>Le interpretazioni della mafia e le scienze sociali</em>, in “Democrazia & Sicurezza”, anno II, n. 2, 2013.</p>
<p>Paliotti V., <em>Storia della camorra. Dal Cinquecento ai nostri giorni</em>, Newton Compton, Roma 2002.</p>
<p>Saviano R., <em>Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra</em>, Mondadori, Milano 2006.</p>
<p>Silvis P., <em>Capire la mafia</em>, LUISS, Milano 2022.</p>
<h2 id="sitografia">Sitografia</h2>
<p>Commissione antimafia, url: <a class="url" href="https://www.parlamento.it/antimafia" target="_blank">https://www.parlamento.it/antimafia</a></p>
<p>Culti e mafie, url: <a class="url" href="http://cultiemafie.uniroma2.it" target="_blank">http://cultiemafie.uniroma2.it</a></p>
<p>Direzione Investigativa Antimafia, url: <a class="url" href="https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it" target="_blank">https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it</a></p>
<p>Libera, url: <a class="url" href="https://www.libera.it" target="_blank">https://www.libera.it</a></p>
<p>Mafie sotto casa*, url: <a class="url" href="https://mafiesottocasa.com" target="_blank">https://mafiesottocasa.com</a></p>
<p>Wikimafia, url: <a class="url" href="https://www.wikimafia.it" target="_blank">https://www.wikimafia.it</a></p>
<div class="footnotes-area"><hr />
<div class="footnote-line"><span class="md-fn-count">1</span> Nella ricostruzione sintetica della storie delle mafie seguo soprattutto Silvis, 2022. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-1" name="dfref-footnote-1" title="torna al documento">↩</a></div>
<div class="footnote-line"><span class="md-fn-count">2</span> Nel 2016 è stata chiesta dall’avvocato Fabio Repici e dal giornalista Alfio Caruso la revisione del processo, poiché le rivelazioni di alcuni pentiti sembrano confermare le accuse di Dolci. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-2" name="dfref-footnote-2" title="torna al documento">↩</a></div><div class="footnote-line"><br /></div><div class="footnote-line"><br /></div>
Testo di Antonio Vigilante. Licenza <a href="http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/">Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia</a></div><div class="footnotes-area">
Non è stato possibile individuare la fonte della foto di copertina.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br />Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-42935737415052913722023-04-10T10:08:00.000+02:002023-04-10T10:49:39.441+02:00Maria Montessori<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjReqve2YmnKmHTSrPz6Yl05LQVAxkhra6ageiiE69EKSQy8X6EcJsjSts49DG0IF4gpIaQFNQFkPsTK3lWz0AatMv32SqZW9ygwmVh96oOnOgvf8dfuoaptOGpOK7kQZMploNBKRn2F4c/s1600/maria-montessori-1.jpg"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjReqve2YmnKmHTSrPz6Yl05LQVAxkhra6ageiiE69EKSQy8X6EcJsjSts49DG0IF4gpIaQFNQFkPsTK3lWz0AatMv32SqZW9ygwmVh96oOnOgvf8dfuoaptOGpOK7kQZMploNBKRn2F4c/s1600/maria-montessori-1.jpg" /></a></div><div style="text-align: left;"><br /></div><div style="text-align: left;">Maria Montessori nasce a Chiaravalle, nelle Marche, nel 1870. Cinque anni dopo si trasferisce con la famiglia a Roma, dove frequenta il Regio Istituto Tecnico “Leonardo Da Vinci”, ottenendo il diploma nel 1890. In contrasto con il padre e con gran parte dell’opinione pubblica dell’epoca, che considerava gli studi tecnico-scientifici inadatti alle donne, decide di iscriversi al corso di laurea in medicina dell’Università “La Sapienza”, dove si laurea nel 1896, prima donna italiana laureata in medicina.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Lo stesso anno è a Berlino, dove interviene al Congresso femminile in rappresentanza delle donne italiane, sostenendo il diritto delle donne ad avere un uguale salario a parità di lavoro. Nel 1898 interviene a Torino al primo Congresso Pedagogico Nazionale, proponendo un ordine del giorno con il quale chiede che la scuola si occupi dei bambini con difficoltà di apprendimento attraverso l’istituzione di classi aggiuntive, mentre per i bambini con<span style="background-color: white;"> deficit più gravi propone la creazione di istituti medico-pedagogici, ponendo al contempo il problema della formazione scientifica degli insegnanti. Quale risposta alle esigenze poste dall’ordine del giorno nasce la Scuola Magistrale Ortofrenica, che ha il compito di preparare gli insegnanti specializ</span>zati nel lavoro con bambini con deficit intellettivi, che Montessori dirige per due anni.<br />
<a name='more'></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div><div style="text-align: left;">Nel 1898 dalla relazione con un assistente di psichiatria, Giuseppe Montesano, nasce il figlio Mario; la coppia decide di non sposarsi ed il bambino viene affidato ad una famiglia che vive in campagna. Tornerà a vivere con la madre nel 1912. </div></div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
</div><div style="text-align: left;">Nel 1899 è presente a Londra, su invito del ministro Baccelli, per rappresentare l’Italia all’International Council of Woman. Dopo aver conseguito una seconda laurea in filosofia, viene nominata docente di igiene e di antropologia presso il Magistero di Roma. </div></div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Nel 1906 si impegna per la concessione alla donne del diritto di voto, firmando un proclama affisso in diverse città italiane e facendo domanda di iscrizione alle liste elettorali. come è noto, in Italia le donne acquisiranno il diritto al voto solo dopo la caduta del fascismo, nel 1946. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il 6 gennaio 1907 inaugura a Roma, nel popolare quartiere San Lorenzo, la prima Casa dei bambini, seguita da una seconda ad aprile, sempre nello stesso quartiere, mentre ad ottobre apre una Casa nel quartiere Umanitaria a Milano. In un volume intitolato <i>Il metodo della pedagogia scientifica</i> (1909), che avrà grandissimo successo anche all’estero, mette a punto quello che da allora si chiamerà Metodo Montessori. Per diffonerlo, nasce nel 1924 l’<span><b style="background-color: white;">Opera Nazionale Montessori</b></span>.</div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;"><br /></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: left;">Il rapporto col fascismo, buono all’inizio, si deteriora inevitabilmente, anche in seguito alle critiche fatte da Giuseppe Lombardo Radice, che sostiene la superiorità e maggiore “italianità” della pedagogia delle sorelle Agazzi e la scarsa originalità di quella di Montessori. Nel 1934 si arriva alla chiusura delle scuole Montessori da parte del regime; lo stesso anno Montessori si dimette dall’Opera Nazionale e in compagnia del figlio viaggia all’estero: prima in Spagna, poi in Inghilterra, infine in India, dove approfondisce i rapporti con la </span><span style="text-align: left;"><b style="background-color: white;">Società Teosofica*</b></span><span style="text-align: left;">, cui si era iscritta già nel 1899. In una serie di opere approfondisce il significato pedagogico e psicologico del suo metodo: </span><i style="text-align: left;">Il segreto dell’infanzia</i><span style="text-align: left;"> (1936), </span><i style="text-align: left;">La scoperta del bambino</i><span style="text-align: left;"> (1948), </span><i style="text-align: left;">Educazione e pace</i><span style="text-align: left;"> (1949), </span><i style="text-align: left;">La mente del bambino</i><span style="text-align: left;"> (1949) Muore nel 1952 a Noodwyk, in Olanda.</span></div></div>
<div align="justify">
<br /></div>
<div class="box1">
La <strong>teosofia</strong> è una dottrina elaborata a fine Ottocento dalla mistica russa Helena Petrovna Blavatsky e caratterizzata dalla ripresa di motivi spirituali provenienti da diverse religioni, in particolare orientali (prime fra tutte il buddhismo), completati da ideali umanitari propri del tempo: la fratellanza, l'emancipazione, la tolleranza. Blavatsky, che era una medium, sosteneva di aver ricevuto le verità fondamentali enunciate nei suoi libri da alcune entità spirituali con le quali era in grado di entrare in contatto. La teosofia ha esercitato una notevole influenza su diversi settori della vita culturale tra la fine dell'Ottocento ed i primi decenni del Novecento.</div>
<br />
<strong>L’educazione dei bambini frenastenici</strong><br />
<br />
<div style="text-align: left;">
La pedagogia di Montessori ha in origine una impostazione rigorosamente scientifica e positivistica, cui si affiancherà con gli anni una più ampia visione filosofica, etica e perfino religiosa, cui non sarà estranea l’influenza della teosofia. Come abbiamo visto, al Congresso Pedagogico del 1898 Montessori pone il problema dell’educazione dei bambini con deficit intellettivi, che allora si definivano frenastenici. Convinta della possibilità di ottenere risultati notevoli con questi bambini attraverso una educazione guidata da rigorosi principi scientifici, Montessori visita gli istituti all’avanguardia in Inghilterra ed in Francia. Viene così a conoscenza dell’opera dei medici francesi Jean Marc Gaspard Itard e <span><b style="background-color: white;">Édouard Séguin</b></span>, che considererà i suoi maestri. Il primo era noto per il caso di <span><b style="background-color: white;">Victor dell’Aveyron*</b></span>, un ragazzo cresciuto in una foresta ed in tutto e per tutto simile alle bestie, che Itard aveva cercato di rieducare. Séguin, allievo di Itard, aveva elaborato un metodo per l’educazione dei bambini frenastenici che cercava di riattivare in loro gradualmente l’intelligenza stimolando i sensi e la muscolatura con esercizi e materiali adatti. Questa gradualità si ritrova anche nelle lezioni tenuta da Montesori alla Scuola Magistrale Ortofrenica, pubblicate ne <em>L’autoeducazione nelle scuole elementari </em>(1919). </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;">Prima di educare un bambino frenastetico bisogna occuparsi del suo corpo, ristabilire delle condizioni di benessere e stimolare i sensi. Con dei bagni freddi o caldi e massaggi si svilupperà la sensibilità, con una dieta attenta e regolata si eviteranno i disturbi intestinali, quindi con una serie di esercizi appositi si stimolerà prima la muscolatura e poi i diversi sensi. A questo punto è possibile passare all’educazione intellettuale, cominciando dall’apprendimento della lettura, che avverrà attraverso lettere in legno che il bambino dovrà toccare, abituandosi al gesto della scrittura; si passa quindi a quelle che Montessori chiama “lezioni oggettive”, nelle quali si mostrerà in modo breve ed essenziale, ma ripetuto nel tempo e con diverse prospettive, un oggetto vicino all’esperienza del bambino. Momento culminante è l’educazione morale, intesa come educazione della volontà e del sentimento. In questo periodo Montessori ritiene indispensabile che l’educatore eserciti la propria autorità sul bambino e lo costringa all’ubbidienza attraverso il comando. “Il maestro che comanda - scrive - è una volontà che s’impone al bambino deficiente, il quale manca di volontà; e si sostituisce alla sua o spingendolo all’azione o inibendo i suoi impulsi”. Per essere efficace il maestro deve fare attenzione a non comandare ciò che non può ottenere, e deve curare la voce, il gesto e la mimica.</div>
<br />
<div class="box1">
Il caso del <strong>ragazzo selvaggio dell'Aveyron</strong> fece molto scalpore in Francia all'inizio dell'Ottocento. Catturato nel 1800 in un villaggio, era nudo ed aveva comportamenti animaleschi. Fu portato a Parigi in un istituto per sordomuti, dove si prese cura di lui il dottor Jean Marc Itard, che riuscì ad averne l'affidamento allo scopo di rieducarlo. Al caso è dedicato il film di François Truffaut <em>Il ragazzo selvaggio</em> (1970).</div>
</div>
<strong><br /></strong>
<strong>La liberazione del bambino</strong><br />
<br />
<div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;">A spingere Montessori verso lo studio dell’educazione dei bambini frenastenici c’è una preoccupazione umanitaria: quella di lavorare per l’emancipazione, la crescita, il miglioramento di soggetti che sono al margine dell’umanità, relegati tradizionalmente nei manicomi e considerati irrecuperabili. C’è una continuità tra la sua lotta politico-culturale in favore delle donne e la sua ricerca scientifica nel campo dell’educazione dei bambini frenastenici. In entrambi i casi si tratta di un lavoro per la liberazione e l’integrazione nella società di soggetti esclusi. Ma sono soltanto le donne ed i bambini frenastenici in questa condizione di esclusione? Ben presto Montessori si rende conto che <span><b style="background-color: white;">il soggetto escluso e marginalizzato per eccellenza nella società è il bambino</b></span>; non solo quello frenastenico, ma anche quello in salute fisica e mentale. La società ha fatto progressi enormi nel riconoscimento dei diritti personali degli adulti, ma non si può dire lo stesso dei diritti del bambino. In nome della stessa educazione si sono compiute e si compiono violenze sui bambini. È normale rivolgersi al bambino con durezza e sottoporlo a castighi; se è vero che le punizioni corporali sono sempre meno accettate, è anche vero che spesso i genitori si credono in dovere di dare ai figli qualche schiaffo.</div>
<br /></div>
<div class="citazione">
<blockquote class="tr_bq">
Eppure – scrive Montessori nel <i>Segreto dell’infanzia</i> – si sono aboliti i castighi corporali per gli adulti, perché avviliscono la dignità umana e sono una vergogna sociale. Ma esiste villania maggiore dell’offendere e battere un bambino? È evidente che la coscienza dell’umanità è sommersa in un sonno profondo.</blockquote>
</div>
<br />
<div style="text-align: left;">
<span><b style="background-color: white;">Luogo di violenza per il bambino è anche la scuola</b></span>. Le scuole, i luoghi in cui si compie il lavoro delicatissimo e cruciale dell’educazione, sono edifici squallidi, pensati e progettati dal punto di vista dell’adulto, sì che un bambino vi si perde. Con indosso una uniforme, il bambino dovrà sedere ad un banco per ore ed ore, immobile, in potere della maestra, costretta a sottomettersi all’insegnamento, più che ad apprendere realmente. Tale è la sua condizione, che Montessori lo paragona al Cristo: il banco è come la croce, che costringe a subire immobile il supplizio. Ma come il Cristo il bambino risorge: “Come ha detto Emerson, il bambino è l’eterno Messia, che sempre ritorna fra gli uomini decaduti, per condurli nel regno dei Cieli”. Questo paragone non sembri eccessivo. <b>Per Montessori è nel bambino che risiede ogni possibilità di cambiamento e di riscatto per l’umanità. </b></div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
L’unica possibilità di avere una umanità felice, libera dal flagello della violenza e della guerra, risiede nel bambino, nella sua possibilità di prendere una direzione diversa rispetto a quella che è stata presa dai suoi genitori e dai suoi insegnanti. Come è evidente, l’educazione non deve dunque replicare nel bambino l’adulto, riprodurre il mondo esistente con i suoi limiti, ma deve essere occasione per una trasformazione e liberazione radicale. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Perché ciò sia possibile, occorre da un lato il senso profondo del rispetto verso il bambino e la coscienza dei suoi diritti, e dall’altro lo sguardo scientifico, che consente di liberare l’infanzia dal peso di superstizioni, errate credenze, suggestioni apparentemente rispettose dell’infanzia, e che in realtà l’alienano. Quando non è costretto a stare immobile in un banco, il bambino viene fatto vivere in un mondo di balocchi, di fantasie, di fiabe, di immaginazione. Si ritiene che questo sia il mondo proprio del bambino. Nulla di più falso, per Montessori. <b>Il bambino, quando non si trova in condizioni di alienazione, non si perde in fantasie, ma si concentra e lavora in modo disciplinato ed attento.</b> Affinché emerga questo aspetto dell’infanzia, occorre che al bambino venga offerto un ambiente adatto, che non abbia nulla della violenza strutturale delle scuole tradizionali e gli dia la possibilità di fare esperienze creative autonome. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>La Casa dei bambini</strong> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Le prime due Case dei bambini nascono a Roma in un quartiere, il San Lorenzo, caratterizzato da degrado abitativo e da una forte criminalità, in cui molti bambini crescevano per strada. La scelta non è casuale, ma risponde all’intento di contribuire al risanamento del quartiere, avviato dall’Istituto Romano di Beni Stabili con il restauro delle abitazioni. Per affrontare il degrado sociale si pensa di istituire degli asili infantili, affidandone l’organizzazione a Montessori. La proposta le consente di mettere in pratica le sue idee pedagogiche, realizzando anche i suoi ideali umanitari e di liberazione femminile. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
<span><b style="background-color: white;">La Casa dei bambini è pensata come una struttura educativa al servizio del cambiamento del territorio.</b></span> La direttrice della Casa ha l’obbligo di risiedere nel quartiere e di mettere a disposizione della sua gente la sua cultura e le sue competenze; è una sorta di operatrice per lo sviluppo comunitario. Il regolamento della Casa impone ai genitori alcuni obblighi: dovranno portare i figli puliti e collaborare con le maestre nel loro lavoro educativo. Così le Case avviano la trasformazione delle famiglie, tolgono i bambini dalle strade, offrono alle donne la possibilità di affrancarsi dalle incombenze legate alla cura dei figli e di dedicarsi a sé stesse. C’è, dietro questa impostazione, la consapevolezza che non è sufficiente studiare scientificamente il bambino per giungere ad una educazione efficace; occorre considerare anche l’ambiente familiare e sociale in cui cresce. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Come afferma nel discorso inaugurale della seconda Casa dei bambini, “invano cercherà la pedagogia scientifica di migliorare le nuove generazioni se non giunge ad influire anche sull’ambiente ove le nuove generazioni sorgono e crescono”. Tuttavia questa esigenza di apertura all’ambiente sociale, realmente essenziale, non ha trovato in Montessori un adeguato sviluppo, e resta una affermazione di principio, più che una direzione d’azione. Il bambino, più che partecipare attivamente alla vita sociale del quartiere, resta legato al suo materiale, impegnato nel suo processo di autoeducazione. Dal punto di vista strutturale, la Casa dei bambini è l’esatto contrario delle scuole. Se queste, come abbiamo visto, sono pensate e progettate dal punto di vista dell’adulto, la Casa dei bambini, ed è questa una grande novità, è realmente <span style="background-color: white;"><b>a misura di bambi</b><span><b>n</b><b>o</b></span></span>: le sedie, i tavoli, tutto l’arredamento è proporzionato alle misure dei bambini. I tavolini, oltre che piccoli, sono leggeri, in modo che i bambini stessi possano trasportarli. Le credenze sono ad altezza di bambino, e così anche il lavabo. Alle pareti ci sono dei piccoli quadri ed una grande riproduzione della Madonna della Seggiola di Raffaello, che per Montessori è l’emblema delle Case dei bambini. Questa scelta innovativa riguardante il setting scolastico esprime concretamente la centralità del bambino nell’educazione. L’altra innovazione della Casa è il materiale. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
<strong>Il materiale e gli esercizi</strong> </div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
La scuola tradizionale ha il suo fondamento nella parola dell’insegnante, che spiega alla classe gli argomenti che di volta in volta intende proporre agli studenti. La lezione può far ricorso anche a dei materiali di supporto, il cosiddetto materiale oggettivo, che però è ancora legato alle esigenze dell’insegnante, più che a quelle degli alunni. Gli oggetti fanno riferimento agli argomenti da spiegare, e non hanno alcun rapporto con le esigenze psichiche dei bambini. Al contrario, il materiale montessoriano nasce dalla ricerca scientifica sullo sviluppo sensoriale ed intellettuale dei bambini, ed è progettato affinché i bambini possano usarlo da soli, sviluppando attraverso l’esercizio le proprie facoltà e al tempo stesso riflettendo sulle proprie strategie cognitive. Esso, afferma Montessori, è per il bambino “come una scala che di grado in grado lo aiuta a salire”. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Ogni materiale è adatto ad una determinata fase di sviluppo, ed al tempo stesso aiuta il bambino a passare alla fase successiva. Il bambino non dipende più dalla voce dalla maestra, non è più il destinatario passivo della sua lezione, ma costruisce da sé i proprio apprendimenti, conquistando il senso dell’autonomia ed acquisendo fiducia in sé stesso. Il materiale montessoriano nasce da una lunga sperimentazione e da un progressivo raffinamento, a partire dal materiale usato da Itard e Séguin nell’educazione dei bambini frenastenici. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
<span><b style="background-color: white;">Lo scopo del materiale è quello di avviare l’educazione dei sensi mettendo ordine nel caos delle impressioni che il bambino riceve normalmente</b></span>, ed intervenendo anche tempestivamente per correggere eventuali disfunzioni. Solo questo lavoro preliminare sui sensi per Montessori consentirà poi in modo naturale lo sviluppo dell’intelligenza. Il materiale non è in alcun modo imposto al bambino, ma suscita il suo immediato interesse, poiché risponde ad un suo bisogno funzionale. Per questo il bambino nella Casa è libero di scegliere il materiale che preferisce, che sarà anche quello più adatto ai suoi bisogni di crescita. La maestra vigilerà soltanto sul suo uso corretto. Gli oggetti che costituiscono il materiale sono ordinati secondo una specifica qualità fisica e sensoriale: vi sono oggetti che riguardano la forma, altri il colore, altri ancora il suono, il peso, la ruvidezza, e così via. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Il materiale<span><b style="background-color: white;"> isola una sola qualità e la presenta in forma graduale</b></span>, andando da un minimo ad un massimo, in modo che il bambino possa affinare la propria capacità di percezione cogliendo la differenza di intensità degli stimoli sensoriali. Per far acquisire al bambino la capacità di riconoscere i colori si useranno così delle tavolette intorno alle quali sono avvolti dei fili di seta colorati con nove tinte diverse, ognuna delle quali presentata in sette diverse gradazioni, per un totale di 63 tavolette. Con questo materiale è possibile organizzare diversi giochi, chiamando i bambini a disporre le tavolette secondo il colore e l’intensità della gradazione. Per educare il tatto si usano tavolette ricoperte di carta liscia o vetrata e smerigliata, anche qui con diverse gradazioni; i bambini le sfiorano con le dita e gli occhi chiusi, riconoscendo le differenze. Per educare la percezione dei suoni si fa ricorso a scatole cilindriche che contengono oggetti che fanno rumori diversi (sabbia, pietre ecc.) ed a campane che emettono suoni corrispondenti alle sette note. E così via. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Gli esercizi con i materiali si svolgono secondo <span style="background-color: white;"><b>tre momenti</b></span>. Al principio il bambino deve riconoscere <b>l’identità</b>, mettendo insieme oggetti simili; in seguito è portato a riconoscere<b> i contrasti</b>, individuando gli estremi di ogni gradazione; infine dovrà saper distinguere <b>le somiglianze</b>, ordinando il materiale secondo la gradazione. Il materiale è costruito con forme attraenti e colori vivaci, in modo da attirare spontaneamente il bambino; inoltre è fatto per stimolare l’attività del bambino, per essere cioè spostato, manipolato eccetera. Molti oggetti poi sono autocorrettivi, ossia sono costruiti in modo tale che il bambino può rendersi conto immediatamente dell’errore. Ciò fa sì che il bambino, mentre usa il materiale, possa riflettere sui suoi errori ed imparare da essi, giungendo autonomamente alla soluzione. Oltre agli esercizi con il materiale nella Casa vi sono esercizi di vita pratica, che riguardano il mantenimento dell’ordine e della pulizia dell’ambiente e della persona. Il bambino dovrà così imparare a muovere silenziosamente le sedie, a trasportare gli oggetti, a camminare in punta di piedi, a spolverare, a versare acqua nei recipienti, a vestirsi e lavarsi da sé, a mangiare usando le posate, ad apparecchiare la tavola, a marciare ritmicamente eccetera. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>La maestra</strong> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;">Come già accennato, il ruolo della maestra nella Casa è principalmente quello di vigilare sull’uso corretto del materiale da parte dei bambini. Si tratta di un ruolo ben diverso da quello tradizionale. L’educazione nella Casa è sostanzialmente autoeducazione: i bambini si educano da sé lavorando con il materiale, non dipendono dalla maestra e dalle sue lezioni. Nella scuola tradizionale l’iniziativa spetta all’insegnante; ora invece l’insegnante è chiamata a farsi da parte, ed a lasciare che il bambino faccia da sé. Scrive Montessori:</div>
<br /></div>
<div class="citazione">
<blockquote class="tr_bq">
Gli oggetti e non l’insegnamento della maestra sono la cosa principale: ed essendo il bambino che li usa, egli, il bambino, è l’entità attiva e non la maestra”. Il suo compito è di fare da collegamento tra il bambino ed il materiale, che naturalmente dovrà conoscere bene, non in modo esteriore, ma per averlo adoperato lei stessa a lungo, sperimentandone in prima persona le caratteristiche e le difficoltà. Presenterà il materiale ai bambini mostrando loro l’uso corretto e vigilerà sul suo uso corretto. Nel caso in cui qualche bambino ne faccia un uso errato, la maestra deve intervenire: in modo dolce, se il bambino è tale, in modo più energico ed autorevole, se il bambino mostra una certa disposizione al disordine. L’ordine, l’armonia, l’operosità silenziosa caratterizzano l’atmosfera dalle Casa dei bambini. Per custodire questa atmosfera, la maestra deve vigilare anche affinché “il bambino che sta assorto nel suo lavoro non sia disturbato da nessun compagno.
</blockquote>
</div>
<br />
<div style="text-align: left;">
Come è stato osservato da non pochi critici, questo che a Montessori appare come un disturbo può essere nulla più che l’espressione di una esigenza di socialità, che nella Casa viene sacrificata allo sviluppo sensoriale attraverso il lavoro individuale. Del resto, nella Casa dei bambini è raro che si verifichino problemi disciplinari. Nelle classi, affollate anche da cinquanta bambini, vige l’ordine più assoluto. Un risultato che non è ottenuto con rimproveri e comandi, mezzi che per Montessori sono privi di utilità per raggiungere lo scopo, ma semplicemente con il lavoro. I bambini non si abbandonano al disordine perché sono concentrati nelle loro attività, intenti al lavoro. se un bambino esprime irrequietezza muscolare, non serve a molto intimargli di star fermo, poiché quel suo comportamento è espressione di un bisogno di coordinamento motorio che dev’essere soddisfatto. Bisognerà cercare dunque gli esercizi adatti a rendere armoniosi i suoi movimenti, raggiungendo al contempo l’obiettivo di ristabilire la disciplina turbata dal suo comportamento. </div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
<strong>Lo sviluppo infantile</strong> </div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Il profondo ripensamento del ruolo della maestra che abbiamo appena visto è in Montessori la conseguenza della sua concezione scientifica dello sviluppo infantile. Una convinzione diffusa vuole che il bambino venga costruito, plasmato dall’adulto, che dirige la sua evoluzione psichica. Per Montessori non è solo un errore: è una forma di arroganza, con la quale l’adulto si attribuisce un potere quasi divino sul bambino. E’ una convinzione pericolosa, perché può ostacolare il naturale processo di sviluppo psichico e personale, che Montessori con un termine che ha qualcosa di religioso, chiama <span><b style="background-color: white;">incarnazione</b></span>. Considerare il bambino come un essere che si incarna vuol dire scorgere in lui un progetto originario, una serie di inclinazioni che esistono già alla nascita, e che si svilupperanno con il tempo. Gli animali riescono poco tempo dopo la nascita a raggiungere l’autonomia, mentre i neonati restano a lungo non autosufficienti. Ma l’animale non fa che replicare la sua specie, mentre l’essere umano è un individuo irripetibile. Si potrebbe dire, scrive Montessori nel <em>Segreto dell’infanzia</em>, che l’animale è un oggetto fabbricato in serie, mentre l’uomo è come un oggetto lavorato a mano: “ognuno è diverso dall’altro, ognuno ha un proprio spirito creatore, che ne fa un’opera d’arte della natura”. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Questo spirito creatore, questa molla interiore che, attraverso un processo che durerà anni, creerà l’individuo unico ed irripetibile, è chiamato da Montessori <span><b style="background-color: white;">embrione spirituale</b></span>. E’ una energia misteriosa e creativa, che presiede all’opera della autocreazione del bambino; una forza che ha bisogno di un ambiente positivo per compiere la sua opera, esattamente come l’embrione fisico ha bisogno dell’ambiente del ventre materno per svilupparsi. Lo sviluppo è l’impresa faticosa con la quale l’embrione spirituale costruisce l’individuo assimilando progressivamente l’ambiente. Sapere questo, vuol dire guardare il bambino con occhi nuovi, imparare un nuovo rispetto: “Quel corpicciuolo tenero e grazioso che adoriamo ricolmandolo di cure soltanto fisiche e che è quasi un giocattolo nelle nostre mani, assume un altro aspetto e incute riverenza, ‘Multa debetur puero reverentia’”. La massima di Quintiliano acquista ora un nuovo valore: il bambino incute rispetto per la grandiosità della sua impresa, perché costruendo sé stesso il bambino costruisce al contempo anche l’umanità. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Non è vero, afferma Montessori, che l’uomo è il padre del bambino. E’ vero il contrario. “Bisognerebbe dire: <span><b style="background-color: white;">l’uomo è stato costruito dal bambino: costui è il padre dell’uomo</b></span>”.
Il bambino alla nascita non è guidato da schemi di comportamento innati, ma non è nemmeno totalmente in balia dell’ambiente. Piuttosto, ha la capacità di acquisire dall’ambiente le informazioni che sono necessarie per la sua crescita. Questa capacità è per Montessori il fatto fondamentale per comprendere lo sviluppo psichico nei primi tre anni di vita. La mente del bambino, a differenza di quella dell’adulto (che per imparare deve far ricorso alla volontà ed all’attenzione) ha la capacità di imparare acquisendo in modo inconscio dall’ambiente ciò di cui ha bisogno. Montessori la chiama, per questo, <span><b style="background-color: white;">mente assorbente</b></span>, precisando che il modo in cui la mente assorbe è diverso da quello della spugna, che assorbe l’acqua senza riuscire poi a trattenerla. La mente del bambino assorbe informazioni che resteranno per tutta la vita e costituiscono la base del suo carattere futuro. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Questo assorbimento non avviene in modo casuale, ma segue delle leggi ben precise ed alcuni periodi sensitivi. Esistono nel bambino delle energie che gli consentono di assorbire in modo inconscio dall’ambiente le informazioni di cui ha bisogno, e che Montessori <span style="background-color: white;">chiama </span><span><b style="background-color: white;">nebule</b></span>. Quando una nebula si attiva, il bambino è sensibile in modo particolare ad alcuni stimoli, quelli che in quel momento sono importanti per la sua crescita. Quando ad esempio giunge il momento della nebula del linguaggio, il bambino riesce improvvisamente a distinguere il linguaggio umano dagli altri suoni e rumori, e se qualcuno gli parla prova un piacere che manifesta con il sorriso. Emerge con chiarezza l’importanza assoluta dell’ambiente per lo sviluppo psichico del bambino. Se, quando è attiva una particolare nebula, il bambino non riceve dall’ambiente gli stimoli necessari, accade un ritardo nello sviluppo che può essere difficile colmare in seguito. Fino all’età di tre anni dunque l’educazione coincide con la vita stessa. In questa fase psico-embrionale il bambino assorbe inconsciamente dall’ambiente ciò di cui ha bisogno. Non occorre che qualcuno ad esempio gli insegni a parlare: impara da sé. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Da adulti non ricorderemo le cose avvenute in questa fase, perché la personalità non era ancora completa. Le cose cambiano verso i tre anni d’età con l’emergere della coscienza. Nella prima fase il bambino ha creato le funzioni fondamentali; ora queste vengono sviluppate e condotte all’unità. Se prima si limitava ad assorbire l’ambiente circostante, anche se in modo creativo, ora ha una sua volontà, e dunque agisce consapevolmente sull’ambiente. Adesso il bambino mostra una naturale attitudine alla astrazione ed a seguire l’ordine e l’esattezza dei procedimenti logici: sviluppa quella che Montessori chiama mente matematica. Le difficoltà che molti bambini hanno con la matematica sono il segno di un cattivo procedimento educativo. Se vengono messi a contatto con del materiale adatto, come quello montessoriano, e si assegnano loro dei compiti che richiedono precisione ed esattezza, i bambini mostrano una spontanea attrattiva per la matematica e lavorano con interesse ed attenzione. </div>
<div style="text-align: left;">
<strong><br /></strong></div>
<div style="text-align: left;">
<strong></strong>
<strong>La normalizzazione</strong> </div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Uno dei problemi eterni della pedagogia è quello del rapporto tra autorità e libertà. Da una parte v’è chi pensa che il bambino, lasciato a sé, si abbandonerebbe alle proprie tendenze negative, per cui è necessario l’intervento correttivo dell’adulto; dall’altra si obietta che è l’autorità a deviare il naturale svolgimento delle facoltà del bambino, che solo nella libertà possono svilupparsi in modo armonico. Dal punto di vista di Montessori questa è una falsa alternativa. Gli educatori autoritari impongono un ordine ed una disciplina che sono inevitabilmente falsi, perché legati solo alla paura ed all’imposizione dell’adulto. Quando questi limiti vengono eliminati da un approccio libertario si ha, nota Montessori, “uno scatenamento disordinato di impulsi non più controllati perché erano stati prima controllati soltanto dalla volontà degli adulti”. Questa non è vera libertà, e non favorisce la crescita del bambino. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Nella Casa dei bambini avviene qualcosa di diverso. Regna una disciplina che tuttavia non ha alcun bisogno del ricorso all’autorità. Come è possibile? Grazie al lavoro. I bambini sono chiassosi, disordinati, distratti, capricciosi, pigri se non hanno qualcosa da fare; qualcosa, s’intende, che sia importante per loro. Nella Casa trovano molte attività interessanti da fare e si concentrano facilmente nel lavoro. <span><b style="background-color: white;">Il bambino viene così disciplinato non dall’intervento autoritario della maestra, ma dall’ambiente stesso</b></span>, che non gli consente di distrarsi perché ad ogni passo esige la sua attenzione. Montessori chiama normalizzazione questa riconquista delle sue qualità positive da parte del bambino. Il bambino disciplinato, che lavora e si concentra (e si apre all’altro, diventando socievole ed altruista), è null’altro che il bambino vero, il bambino normale. Deviato è invece il bambino che le tendenze disgregatrici e diseducative dovute all’ambiente esterno ed all’intervento dell’adulto costringono ad una fuga nella fantasia. E’ un bambino spezzato, perché non gli si consente di incarnare l’intelligenza nell’azione, esprimendosi attraverso il movimento e facendo esperienze concrete; non gli resta dunque che la via dell’immaginazione. La Casa dei bambini si configura dunque come un luogo di guarigione. “Si direbbe - conclude Montessori ne La mente del bambino - che i bambini fanno esercizi di vita spirituale, avendo trovato una via di perfezionamento e di ascesa.” </div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
<strong>Una pedagogia per la pace</strong> </div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Nella sua lunga vita Maria Montessori ha assistito alle due guerre mondiali, all’affermarsi dei nazionalismi, delle persecuzioni razziali, dell’odio in tutte le sue forme. Una delle preoccupazioni costanti della sua ricerca è quella della pace; ed è significativo che la sua ultima opera, La mente del bambino, si chiuda con una riflessione sull’amore. Per quanto sembri essere stato cacciato via dal mondo, l’amore è in realtà una grande energia cosmica, anzi è l’universo stesso, il principio che guida il mondo inanimato e quello animato, spingendo costantemente verso l’armonia e l’unità. Anche quando i cuori sembrano essersi inariditi, c’è un modo semplice ed infallibile per riscoprire l’amore: guardare un bambino. </div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;">Ovunque il bambino suscita immediatamente amore, dolcezza, tenerezza. <span><b style="background-color: white;">“Il bambino - scrive - è una sorgente d’amore; quando lo si tocca, si tocca l’amore”</b></span>. Se si cerca poi di comprendere l’amore, si scoprono affinità significative con la mente assorbente. L’amore è la capacità di accettare senza giudicare, di comprendere, di armonizzare. Non è forse questo che fa il bambino? Alla fine del suo percorso, Montessori mostra così che gli adulti, che hanno la pretesa di educare i bambini, dovranno imparare da loro ciò che è assolutamente indispensabile per la sopravvivenza della specie. “Lo studio dell’amore e la sua utilizzazione ci porteranno alla sorgente dalla quale esso zampilla: il Bambino. Questa è la strada che l’uomo dovrà percorrere nel suo affanno e nei suoi travagli, se egli, come aspira, vuole raggiungere la salvezza e la unione dell’umanità”.</div>
<br />
<b>Bibliografia </b></div>
<br />
<div style="text-align: left;">
Tutte le opere di Maria Montessori sono disponibili in edizioni recenti presso l’editore Garzanti di Milano. Moltissimi sono anche gli studi su Montessori. Per una introduzione si può leggere il libro della sua allieva Grazia Honegger Fresco: <i>Maria Montessori. Una storia attuale</i> (L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2008). Si può poi approfondire con Giacomo Cives, <i>Maria Montessori. Pedagogista complessa</i> (ETS, Pisa 2001), Clara Torna, <i>La pedagogia di Maria Montessori tra teoria e azione</i> (FrancoAngeli, Milano 2007) e Raniero Regni, <i>Infanzia e società in Maria Montessori. Il bambino padre dell’uomo</i> (Armando, Roma 2007). Sul femminismo di Maria Montessori è utile il libro di Valeria P. Babini e Luisa Lama <i>Una donna nuova. Il femminismo scientifico di Maria Montessori</i> (FrancoAngeli, Milano 2000). </div>
<br />
<b>Links</b><br />
<br />
<a href="http://www.operanazionalemontessori.it/">Opera Nazionale Montessori</a><br />
<br />Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-14873567274478386512021-11-01T08:48:00.012+01:002023-04-09T09:44:13.280+02:00Gli attacchi di panico<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPQpACtx6MWFj6Q46f90E_fgKKsn6GLaX7voLIetpMHhpBw4mLrY8ZWM3_m_ARrrQDPaYmZrjL9JZ8AT6cwBXdb5HCNJQamjf8XORYI7aUOmONgUdF_df2zH5vBmmQc_sktaPN3Tl2JFk/s2048/ehimetalor-akhere-unuabona-pTUCMqXCOrk-unsplash.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1360" data-original-width="2048" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPQpACtx6MWFj6Q46f90E_fgKKsn6GLaX7voLIetpMHhpBw4mLrY8ZWM3_m_ARrrQDPaYmZrjL9JZ8AT6cwBXdb5HCNJQamjf8XORYI7aUOmONgUdF_df2zH5vBmmQc_sktaPN3Tl2JFk/s16000/ehimetalor-akhere-unuabona-pTUCMqXCOrk-unsplash.jpg" /></a></div><br /><div style="text-align: left;">Secondo il rapporto Istat <em>La salute mentale nelle varie fasi della vita</em>, relativo al periodo 2015-2017, in Italia il disturbo mentale più diffuso è la depressione, seguito dall'ansia cronica grave, con la quale è spesso associata. L'ansia cronica colpisce il 7% della popolazione al di sopra dei quattordici anni, vale a dire 3,7 milioni di persone;<sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-1" name="ref-footnote-1">1</a></sup> gli attacchi di panico ne sono una manifestazione frequente e rilevante per le conseguenze psicologiche. Chi soffre di attacchi di panico, infatti, tende a sviluppare una paura incontrollata che gli stessi possano ripetersi in determinate situazioni sociali: nell'autobus, a scuola, in ascensore o al supermercato. Nei casi peggiori, si tende a sfuggire ogni situazione sociale ed ogni luogo che possa aumentare il senso di ansia, con conseguenze importanti sulla vita personale.</div><p></p>
<p style="text-align: left;">Un attacco di panico si riconosce, secondo il <em>Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali</em> (DSM-V), per la presenza di almeno quattro dei seguenti sintomi:<sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-2" name="ref-footnote-2">2</a></sup></p>
<blockquote><ol start=""><li style="text-align: left;">Palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia.</li>
<li style="text-align: left;">Sudorazione.</li>
<li style="text-align: left;">Tremori fini o a grandi scosse.</li>
<li style="text-align: left;">Dispnea o sensazione di soffocamento.</li>
<li style="text-align: left;">Sensazione di asfissia.</li>
<li style="text-align: left;">Dolore o fastidio al petto.</li>
<li style="text-align: left;">Nausea o disturbi addominali.</li>
<li style="text-align: left;">Sensazioni di vertigine, di instabilità , di "testa leggera" o di svenimento. </li>
<li style="text-align: left;">Brividi o vampate di calore.</li>
<li style="text-align: left;">Parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio).</li>
<li style="text-align: left;">Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati
da se stessi).</li>
<li style="text-align: left;">Paura di perdere il controllo o di "impazzire".</li>
<li style="text-align: left;">Paura di morire.</li>
</ol>
</blockquote>
<p style="text-align: left;">L'attacco raggiunge il picco in pochi minuti e poi si risolve spontaneamente. Affinché si possa parlare di attacco di panico occorre che questi sintomi non siano riconducibili all'assunzione di sostanze come farmaci, alcol o droghe. Gli attacchi sono classificati come <em>attesi</em> o <em>situazionali</em> se si verificano in presenza di un elemento scatenante evidente o <em>inaspettati</em> se un simile elemento manca, e l'attacco avviene in una situazione non particolarmente stressante. Un attacco di panico può essere anche <em>notturno</em>; in questo caso il soggetto si sveglia improvvisamente in preda ad un attacco di panico.</p>
<p style="text-align: left;">Secondo il DSM-V gli attacchi di panico sono più frequenti tra le femmine, colpiscono raramente i bambini e in media insorgono verso i 22-23 anni. Quanto agli adolescenti, essi "potrebbero essere meno disposti degli adulti a parlare apertamente degli attacchi di panico, anche se manifestano episodi di paura o disagio intensi" <sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-3" name="ref-footnote-3">3</a></sup> Sembra che su questo punto il DSM, che risale, nella sua quinta edizione, al 2013, debba essere aggiornato. Gli attacchi di panico tra adolescenti sono molto frequenti e spesso avvengono a scuola, costringendoli di fatto a parlarne con gli adulti. Alla base di un tale fenomeno, che sta diventando sempre più statisticamente significativo, ci sono spesso situazioni famigliari - ad esempio la separazione dei genitori o un lutto - ma anche lo stress legato alla routine scolastica.</p>
<p style="text-align: left;">Come avviene un attacco di panico? Una situazione che ognuno di noi sperimenta è la paura. Essa si verifica in presenza di uno stimolo scatenante (la visione di una scena raccapricciante o di un animale pericoloso) e si manifesta con una serie di sintomi fisici e psicologici. Quando abbiamo paura possiamo provare tremore, sudare, sentirci smarriti. Nel caso del <em>panico</em>, questi sintomi sono portati all'estremo, e tutto ciò in assenza di un evidente elemento scatenante. Il soggetto prova una paura che è fuori controllo, senza che apparentemente ci sia alcun pericolo che possa giustificare una tale reazione.</p>
<p style="text-align: left;">La parte del nostro cervello che gestisce le nostre emozioni è l'<em>amigdala</em>, un complesso che si trova nel lobo temporale. Quando accade un attacco di panico, l'amigdala percepisce una situazione di pericolo, pur non essendovi alcuna minaccia reale. Perché accade? Secondo Enrico Rolla,<sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-4" name="ref-footnote-4">4</a></sup> quando viviamo una situazione di ansia la nostra resporazione tende spontaneamente a diventare rapida. In questo modo si crea nel corpo uno squilibrio: la respirazione scorretta porta una quantità eccessiva di ossigeno e una minore quantità di anidride carbonica, che l'amigdala interpreta come un segnale di pericolo. Noi normalmente monitoriamo sia gli stimoli esterni che quelli interni, per individuare tempestivamente segnali di pericolo. Siamo attenti a un animale che potrebbe aggredirci, ma anche al dente che fa male o ai sintomi di un infarto. In questo caso il cervello appunto individua un segnale interno di pericolo ed innesca una reazione incontrollata ed evidentemente disfunzionale.</p>
<p style="text-align: left;">Se le cose stanno così, per affrontare gli attacchi di panico è importante lavorare sulla stessa respirazione, concentrandosi in particolare sulla respirazione diaframmatica o addominale. Si adopera inoltre il <em>rilassamento muscolare progressivo</em>, una tecnica creata negli anni Trenta del secolo scorso da Edmund Jacobson:<sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-5" name="ref-footnote-5">5</a></sup> contraendo progressivamente e rilasciando i diversi muscoli del corpo, si impara a superare autonomamente la tensione muscolare ed a rilassare il corpo. In molti casi, perché opportunamente trattati o per il venir meno degli elementi scatenanti -- situazioni particolarlmente stressanti -- gli attacchi di panico regrediscono fino a scomparire; in altri possono invece evolgere in un <em>disturbo di panico</em>, nel quale la preoccupazione per la possibilità che avvengano attacchi di panico diventa essa stessa un disturbo, spingendo a cambiare il comportamento in modo sensibile, ad esempio evitando tutti i luoghi e le situazioni in cui si teme che possa verificarsi un attacco.</p>
<p> </p>
<div class="footnotes-area"><hr />
<div class="footnote-line" style="text-align: left;"><span class="md-fn-count">1</span> Istat, <em>La salute mentale nelle varie fasi della vita. Anni 2015-2017</em>, report, url: <a class="url" href="https://www.istat.it/it/files/2018/07/Report_Salute_mentale.pdf" target="_blank">https://www.istat.it/it/files/2018/07/Report_Salute_mentale.pdf</a> <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-1" name="dfref-footnote-1" title="torna al documento">↩</a></div>
<div class="footnote-line" style="text-align: left;"><span class="md-fn-count">2</span> American Psychiatric Association, <em>Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Quinta edizione (DSM-V)</em>, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 247. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-2" name="dfref-footnote-2" title="torna al documento">↩</a></div>
<div class="footnote-line" style="text-align: left;"><span class="md-fn-count">3</span> Ivi, p. 249. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-3" name="dfref-footnote-3" title="torna al documento">↩</a></div>
<div class="footnote-line" style="text-align: left;"><span class="md-fn-count">4</span> E. Rolla, <em>Attacchi di Panico. Come uscirne: La potenza della Terapia Cognitivo Comportamentale</em>, Istituto Watson, Torino 2017. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-4" name="dfref-footnote-4" title="torna al documento">↩</a></div>
<div class="footnote-line" style="text-align: left;"><span class="md-fn-count">5</span> E. Jacobson, <em>Progressive relaxation: A physiological and clinical investigation of muscular states and their significance in psychology and medical practice</em>, University of Chicago Press, Chicago 1938. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-5" name="dfref-footnote-5" title="torna al documento">↩</a></div></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-32964444515508538932021-09-19T15:56:00.010+02:002023-04-09T09:44:36.016+02:00Due esperimenti sulla sessualità femminile<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEirT9X0ho0mFo-C2i2bj-iEYtwY_j1BzCFzvShJLTRtvcXliQ9wnCZDU7i6hPk4mLIEpPu00qAP2-jJcgt1x9rf04xpOzaeekQuvuQ5aDQkqmUcckXHh8IZTptVWXh072Bp4wWUjravCzHDJtbjFGF11zEBW5LkNxSv_Rw6Xvoob7-K7NWsiibojZOa/s1000/image.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="655" data-original-width="1000" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEirT9X0ho0mFo-C2i2bj-iEYtwY_j1BzCFzvShJLTRtvcXliQ9wnCZDU7i6hPk4mLIEpPu00qAP2-jJcgt1x9rf04xpOzaeekQuvuQ5aDQkqmUcckXHh8IZTptVWXh072Bp4wWUjravCzHDJtbjFGF11zEBW5LkNxSv_Rw6Xvoob7-K7NWsiibojZOa/s16000/image.png" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br />È convinzione diffusa che le donne siano meno inclini al sesso rispetto agli uomini, per una sorta di pudore <em style="text-align: left;">naturale</em><span style="text-align: left;">, che le spingerebbe a cercare un solo partner con il quale allevare i figli. La semplice osservazione dei cambiamenti dei costumi degli ultimi decenni sembra confutare questa convinzione. Nei paesi occidentali dagli anni Cinquanta del secolo scorso in poi le donne hanno conquistato sempre più libertà ed indipendenza sessuale, e non è raro che sia una donna a prendere l'iniziativa. Permangono tuttavia differenze significative, che risultano evidenti se si prova ad intervistare in modo non anonimo delle donne sulla loro vita sessuale. Si tratta di differenze naturali, o sono ancora il riflesso di una cultura che non si è del tutto liberata da una concezione repressiva della sessualità femminile?</span><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;">Un modo per rispondere a questa domanda è quello di analizzare cosa avviene nel corpo femminile quando viene esposto a stimoli sessuali. Il corpo, per così dire, <em>non mente</em>, mentre è possibile che quello che una donna dice sia condizionato dal timore del giudizio sociale.</div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">La sessuologa canadese <b>Meredith Civers</b> ha analizzato le reazioni di un campione di donne eterosessuali, uomini eterosessuali e uomini gay alla visione di contenuti pornografici di diverso genere (sesso eterosessuale, omosessuale e masturbazione), ma riguardanti anche scimmie bonobo. Le donne volontarie dovevano indicare di volta in volta il grado di eccitazione che la visione aveva suscitato in loro. Intanto la sperimentatrice registrava il livello reale di eccitazione attraverso uno strumento (il <em>pletismografo</em>) che misurava l'accesso di sangue nell'area vaginale. Il risultato è stato sorprendente: i dati del pletismografo non solo non confermavano le indicazioni date dalle volontarie sulla loro eccitazione reale, ma <span style="background-color: #ffe599;">indicavano una reattività agli stimoli più diversi</span>. Anche se affermavano il contrario, le volontarie eterosessuali si eccitavano alla vista di scene di sesso tra uomini, ma anche assistendo a rapporti tra donne; le scene di accoppiamento tra bonobo, se erano meno eccitanti della pornografia umana, risultavano comunque più eccitanti della scena di un uomo dai muscoli scolpiti che passeggiava in spiaggia. <span style="background-color: #ffe599;">C'era una fortissima discrepanza tra l'eccitazione reale e quella dichiarata</span>, che non si verificava invece nel caso dei volontari maschi eterosessuali e gay, nei quali c'era piena corrispondenza tra il livello di eccitazione dichiarato e quello misurato dallo strumento, e l'eccitazione rispondeva alle attese e ai gusti dichiarati; nessuna eccitazione, inoltre, suscitava in loro la vista di scene di accoppiamento tra i bonobo.</div></div>
<p style="text-align: left;">La conclusione non è soltanto che le donne tendono a non esprimere sinceramente la loro sessualità, evidentemente per il timore del giudizio, ma che la sessualità femminile è più varia e complessa di quella maschile.</p>
<p style="text-align: left;">In un altro esperimento, la sessuologa ha sottoposto a un gruppo di volontarie eterosessuali non dei video porno, ma delle audiocassette che raccontavano situazioni erotiche. In queste storie il seduttore, di entrambi i sessi, poteva essere persona sconosciuta o amica. Anche in questo caso i dati registrati divergevano completamente da quanto dichiarato dalle volontarie. Le donne erano eccitate da scene di sesso con donne estranee, anche se dichiaravano il contrario, ma <span style="background-color: #ffe599;">l'eccitazione in particolare era molto forte nel caso in cui il seduttore era un uomo estraneo</span>. "Tutto ciò - osserva Daniel Bergner - contrastava con il presupposto sociale secondo cui la sessualità femminile si nutre di legami emotivi, d'intimità consolidata, di un senso di sicurezza". <sup class="md-footnote"><a href="#dfref-footnote-1" name="ref-footnote-1">1</a></sup></p>
<p style="text-align: left;">Questi risultati sembrano dimostrare che non solo che la sessualità femminile, con i suoi tratti di pudore e di ritrosia, è una costruzione culturale, ma che la sessualità femminile è anche più vivace di quella maschile e che è normale, anche in donne che si dichiarano eterosessuali, una sensibile inclinazione al sesso lesbico. Se le cose stanno così, è evidente che le donne sono sottoposte a una pressione sociale per adeguarsi alle aspettative sociali, con evidenti conseguenze non solo sulla libertà sessuale, ma anche sulla salute psicologica.</p>
<p style="text-align: justify;"> </p>
<h3 id="note"></h3><div class="footnotes-area">
<p style="text-align: left;"><span><span class="md-fn-count">1</span> D. Bergner, <em>Che cosa vogliono le donne. Contro i luoghi comuni su sesso e tradimento</em>, Einaudi, Torino 2021. <a class="reversefootnote" href="#ref-footnote-1" name="dfref-footnote-1" title="torna al documento">↩</a></span></p><div class="footnote-line"><br /></div><div class="footnote-line">Photo by <a href="https://unsplash.com/@yoannboyer?utm_source=unsplash&utm_medium=referral&utm_content=creditCopyText">Yoann Boyer</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/woman?utm_source=unsplash&utm_medium=referral&utm_content=creditCopyText">Unsplash</a></div></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-5404313783701540052020-05-17T10:37:00.005+02:002021-09-10T11:44:24.707+02:00Il potere in Michel Foucault<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgU8yZjsQf-YfVq96pkRCr9Q190DjSmoKSyS3H40HrmWU5fclu2FGsui-t1rKdaiNd4JZxT996Zv4JaFPlarrG494QPcSwlpe0PqGznkkEY-pi9geFBC0LMdurXW7p8_N68zI2H13BdRHA/" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1071" data-original-width="1600" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgU8yZjsQf-YfVq96pkRCr9Q190DjSmoKSyS3H40HrmWU5fclu2FGsui-t1rKdaiNd4JZxT996Zv4JaFPlarrG494QPcSwlpe0PqGznkkEY-pi9geFBC0LMdurXW7p8_N68zI2H13BdRHA/d/foucault.jpg" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>Nella visione corrente il potere è repressione o oppressione, l'azione con la quale alcuni impongono ad altri alcune cose, o sottraggono loro beni e risorse. Negli anni Settanta del secolo scorso Michel Foucault ha mostrato, in studi che restano fondamentali per la riflessione attuale del potere, che una simile rappresentazione è inadeguata per comprendere il funzionamento del potere nelle società moderne. </div><div style="text-align: justify;">Per illustrare questa trasformazione Foucault affianca, nelle prime pagine di <i>Sorvegliare e punire. Nascita della prigione </i>(1975) la descrizione di un supplizio a Parigi nel 1757 alla descrizione della giornata tipo di un detenuto nel 1838. Nel primo caso il condannato viene sottoposto a torture atroci e infine squartato; nel secondo caso si stabilisce un fitto programma per la giornata dei detenuti, che comprende anche un tempo dedicato allo studio. In questo periodo accade dunque che tramontano le punizioni pubbliche, che intendevano educare con il loro carattere esemplare, e nasce la prigione come luogo in cui si intende recuperare chi si è macchiato di un crimine. Il detenuto può essere recuperato solo se sottoposto a un regime disciplinare capillare, minuzioso, che regola la sua vita fin nei dettagli, e recluso in una istituzione in cui sia possibile la sua sorveglianza costante. Se precedentemente il detenuto veniva recluso nel buio delle segrete, ora il carcere ha come modello il <span style="background-color: #ffe599;">Panopticon</span><span style="background-color: white;"> </span>immaginato dal filosofo Jeremy Bentham: una struttura ad anello con delle celle e una torre centrale, dalla quale è possibile osservare tutti coloro che sono reclusi nelle celle. "Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro", scrive Foucault [1]. Infatti questo tipo di struttura non riguarda solo il carcere, ma è una costante delle organizzazioni di quello che il filosofo chiama <span style="background-color: #ffe599;">potere disciplinare</span>, proprio dell'età moderna; anche il manicomio, dunque, la scuola e la fabbrica. Il potere moderno si esprime attraverso istituzioni nelle quali i soggetti sono sottoposti ad uno sguardo costante, ad un continuo controllo che impedisce sul nascere qualsiasi comportamento deviante. </div><div style="text-align: justify;">Alla fine del XVIII secolo il potere subisce una trasformazione radicale con la nascita della <span style="background-color: #ffe599;">biopolitica</span>, che per Foucault caratterizza anche la società attuale. Il potere tradizionale si esprime come potere di vita e di morte; il sovrano può anche togliere la vita. "Il potere - scrive Foucault nel primo volume della <i>Storia della sessualità</i> - era innanzitutto diritto di prendere: sulle cose, il tempo, i corpi ed infine la vita; fino a culminare nel privilegio d’impadronirsene per sopprimerla" [2]. Ora il potere invece si occupa soprattutto di <span style="background-color: #ffe599;">gestire la vita</span>, "incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d'insieme". Nasce in questo periodo il concetto di popolazione, che sostituisce tanto quello di sudditi quanto quello di popolo. La popolazione non è una massa da sottomettere, ma una risorsa da gestire: bisogna occuparsi della salute fisica e mentale, della fecondità e natalità, dell'alimentazione e così via. Un tale potere ha bisogno dunque di un intero sistema di saperi disciplinari, come la biologia e la genetica, ma anche la psichiatria, la sociologia, la criminologia. Questi saperi agiscono come separando il normale dal patologico, una distinzione che serve ad esercitare le pratiche disciplinari di cui abbiamo parlato per normalizzare ciò che è patologico. Tutt'altro che neutro, il sapere è dunque legato al potere e fonda e giustifica la violenza verso qualsiasi soggetto che si allontani dalla norma. </div><div style="text-align: justify;">E' qui evidente il lato oscuro della biopolitica. La promozione della vita può condurre non solo all'eugenetica, ma anche alla violenza verso chiunque sia fisicamente o mentalmente disabile, in nome di una positività che non ammette imperfezioni.
Sul piano del diritto, al passaggio dal potere tradizionale alla biopolitica corrisponde <span style="background-color: #ffe599;">il passaggio dalla legge alla norma</span>. La legge è l'aspetto minaccioso del diritto, funziona attraverso la punizione di chi trasgredisce, ed al limite con la pena di morte. Il biopotere ha bisogno di altro. "Un tale potere - scrive Foucault - deve qualificare, misurare, apprezzare, gerarchizzare, piuttosto che manifestarsi nel suo scoppio omicida; non deve tracciare la linea che separa i nemici del sovrano dai soggetti obbedienti; opera distribuzioni intorno alla norma" [3]. La legge non scompare, ma ha sempre più una funzione regolativa, e il potere del sistema giudiziario è integrato, quando non sostituito, da quelli di altri apparati, come quello medico. </div><div style="text-align: justify;">Quest'ultima considerazione ci porta ad un'ulteriore caratteristica del potere moderno. Esso non è possesso di alcuni, ma circola per così dire in tutta la società; non funziona con una struttura gerarchica, ma in modo reticolare. In un dibattito alla tv olandese con Noam Chomsky sul tema della natura umana (1971), Foucault dichiara: </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Abbiamo la consuetudine, almeno nella nostra società europea, di considerare che il potere sia localizzato nelle mani del governo e si eserciti attraverso un certo numero di istituzioni specifiche che sono le amministrazioni, la polizia, l'esercito. Sappiamo che tutte queste istituzioni sono fatte per trasmettere gli ordini, farli applicare e punire coloro che non vi obbediscono. Ma credo che il potere politico si eserciti inoltre ulteriormente per mezzo di un certo numero di istituzioni che sembrano non avere nulla in comune con il potere politico, che sembrano indipendenti da esso ma non lo sono. Sappiamo bene che l'università e il sistema scolastico che in apparenza è fatto semplicemente per distribuire il sapere è fatto per mantenere al potere una certa classe sociale ed escludere dagli strumenti dle potere un'altra classe sociale. [4] </blockquote></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><font size="2">[1] M. Foucault, <i>Sorvegliare e punire</i>, Einaudi, Torino 2013. | [2] M. Foucault, <i>Storia della sessualità. Vol.I: La volontà di sapere</i>, Feltrinelli, Milano 2013.| [3] Ivi. | [4] Il dibattito è disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=J5wuB_p63YM</font></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-21618952803293787732020-04-10T11:46:00.009+02:002023-04-10T07:43:20.667+02:00Marshall McLuhan: il medium è il messaggio<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOls4KfrY8RM0VZpweUOb1vo0qGz8tJZR0EIY4D3Y-yrDwIjtDPqkKSKvS6BjDyWZ_2UyDIvfhgActa0AXGdA2H_yNHHSV1778p1Feb8EU66E6vYtnuTyABobzQDteMb7hwI5J9lpm7g/s1600/mcluhan.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="391" data-original-width="600" height="492" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOls4KfrY8RM0VZpweUOb1vo0qGz8tJZR0EIY4D3Y-yrDwIjtDPqkKSKvS6BjDyWZ_2UyDIvfhgActa0AXGdA2H_yNHHSV1778p1Feb8EU66E6vYtnuTyABobzQDteMb7hwI5J9lpm7g/w755-h492/mcluhan.jpg" width="755" /></a></div>
<br /><div style="text-align: left;">Lo studio dei mass media ha ricevuto un impulso decisivo all'inizio degli anni Sessanta del secolo scorso dalla ricerche di Marshall McLuhan (1911-1980), un sociologo canadese con alle spalle studi di letteratura inglese ed ingegneria. Il suo libro del 1964 <i>Understanding Media: The Extensions of Man</i> (tradotto in italiano con il titolo <i>Gli strumenti del comunicare</i>) è ancora un testo fondamentale per ragionare su come la tecnologia trasforma la società e la nostra stessa identità. La tesi del libro, sottolineata dal sottotitolo, è che è mezzi tecnologici non sono semplici strumenti neutri, che possono essere usati bene o male in vista di un fine, ma <span style="background-color: #ffe599;">sono estensioni di noi stessi che ci trasformano indipendentemente dal fine</span>. E' la tesi sintetizzata dal motto "<span style="background-color: #ffe599;">il medium è il messaggio</span>"[1]; ed il messaggio "è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani" [2]. Non essere consapevoli dell'influenza che essi hanno su di noi significa consentire loro di diventare "prigioni senza muri per gli uomini che ne fanno uso"[3].</div></div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">Non tutti i media sono uguali. McLuhan distingue <span style="background-color: #ffe599;">media freddi e caldi</span>. Un medium caldo coinvolge solo un senso, ma lo fa ad alta definizione, offrendo cioè un'alta quantità di dati; al contrario un medium freddo coinvolge più sensi, ma con una bassa definizione. Di conseguenza un medium freddo, a differenza di un medium caldo, richiede l'attiva partecipazione del pubblico, che deve colmare le informazioni mancanti o organizzare le informazioni ricevute. "Forse è per questo - commenta ironicamente McLuhan - che gli innamorati bisbigliano tanto" [4]. Esempi di media caldi sono la fotografia e la radio, che coinvolgono rispettivamente il canale visivo e quello uditivo, mentre la televisione è un medium freddo: non può essere usata, a differenza della radio, come semplice sottofondo, richiede una attenzione partecipe da parte dello spettatore.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">E' possibile per McLuhan comprendere in che modo i due tipi di media influiscono su chi ne fa uso osservando il modo in cui i bambini, cresciuti ormai con la televisione, si pongono di fronte al libro stampato nei primi anni di scuola: si dispongono a una distanza di circa sedici centimetri, nel tentativo di porsi davanti al testo stampato - un medium caldo, che offre informazioni che coinvolgono solo la vista - come se fosse un televisore [5].</div></div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">Il mito di <span style="background-color: #ffe599;">Narciso</span> per McLuhan è un'ottima metafora del rapporto tra l'essere umano e quella estensione di sé che sono i media. Narciso osserva la sua immagine riflessa in uno specchio d'acqua ma non la riconosce e se ne innamora. Ciò lo intorpidisce e lo rende insensibile ai richiami della ninfa Eco. L'immagine riflessa sono i media, che sono estensioni di noi stessi ma che non riconosciamo come tali, e finiamo per venerare come idoli. L'uso di un medium sovrastimola un canale sensoriale. Il nostro sistema nervoso reagisce ad una sovrastimolazione con il <span style="background-color: #ffe599;">torpore</span>. Durante una seduta dal dentista, far ascoltare al paziente in cuffia un rumore altissimo aiuta a sentire meno il dolore dovuto alla trapanazione del dente, perché l'organismo reagisce alla sovrastimolazione acustica con un intorpidimento generale. Ma che succede quando i media diventano elettrici? Per McLuhan con i media elettrici l'essere umano consegna alla tecnologia il suo stesso sistema nervoso, in un certo senso si può dire che "<span style="background-color: #ffe599;">ha il cervello fuori del cranio</span> e i nervi fuori dalla pelle" [6], traduce in informazione la sua stessa coscienza.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">Le conseguenze sono da un lato un generale torpore, dovuto alla ragioni di cui si è detto, e dall'altro la possibilità di una presa di consapevolezza di noi stessi grazie allo svelamento tecnologico della nostra vita subliminale. In particolare l'azione dei nuovi media agisce nelle società occidentali operando una <span style="background-color: #ffe599;">ritribalizzazione</span>. Attraverso la scrittura e, poi, il medium tipografico, l'uomo occidentale si è affrancato dai vincoli tribali concependosi come individuo; ne è derivato anche il nazionalismo, perché la stampa ha cristallizzato le singole lingue e ne ha diffuso la diffusione, favorendo raggruppamenti in base alla lingua. Con i media elettrici questa separazione individualistica non è più possibile. La radio e la televisione immergono costantemente l'individuo in un mondo comune, lo mettono costantemente a contatto con informazioni ed emozioni di quello che è ormai un villaggio globale. In questo modo l'uomo "diventa di nuovo tribale. E la famiglia umana ridiventa un'unica tribù" [7].</div>
<br />
<b>Note </b><br />
<b><br /></b>
1. M. McLuhan, <i>Gli strumenti del comunicare</i>, tr. it., Il Saggiatore, Milano 2002, p. 16. | 2. Ivi, p. 16 | 3. Ivi, p. 29. | 4. Ivi, p. 340. | 5. Ivi, p. 328. | 6. Ivi, p. 68. | 7. Ivi. p. 183.</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-38179947995911094822020-04-08T21:37:00.009+02:002023-04-10T08:05:09.178+02:00René Girard: il desiderio, la violenza e il sacro<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhRj8C-UGPwp68QEy-u1S8jG3ZrSnJvwXljWz7n8gbi5EWGLD5SW7RkwjPnYV76uLYnS50MUtWxqgXd56ofGYo8XUeyFiG6exCKHc2ZnHfftEgeCSUN9Ik-wdL6g3IqUdO5HvaJzD6YpQ/s1600/girard.jpg" style="margin-left: 0em; margin-right: 0em;"><img border="0" data-original-height="288" data-original-width="512" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhRj8C-UGPwp68QEy-u1S8jG3ZrSnJvwXljWz7n8gbi5EWGLD5SW7RkwjPnYV76uLYnS50MUtWxqgXd56ofGYo8XUeyFiG6exCKHc2ZnHfftEgeCSUN9Ik-wdL6g3IqUdO5HvaJzD6YpQ/s16000/girard.jpg" /></a>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Alla fine degli anni cinquanta René Girard, giovane docente di letteratura all'università John Hopkins di Baltimora, è impegnato in una ricerca sul romanzo moderno, che sfocerà nel libro <i>Menzogna romantica e verità romanzesca</i> (<i>Mensonge romantique et vérité romanesque</i>, 1961). Analizzando i personaggi dei romanzi di autori come Cervantes, Proust e Dostevskij, Girard giunge a individuare quella che gli sembra essere una caratteristica universale dell'essere umano, che gli scrittori sono riusciti a rappresentare con finezza psicologica. Noi siamo esseri che desiderano. Il nostro desiderio tuttavia non è semplicemente indirizzato verso un oggetto, ma giunge all'oggetto attraverso la mediazione dell'altro. Noi, cioè, <span><b style="background-color: white;">desideriamo ciò che desidera l'altro</b></span>, e <i>in quanto</i> lo desidera l'altro. In questo senso Girard afferma che <span style="background-color: white;"><b>il desiderio è mimetico</b></span>. Desiderando imitiamo l'altro, e non un altro qualsiasi, ma un altro cui riconosciamo il ruolo di modello. Desideriamo le cose che desidera l'altro perché vogliamo essere come l'altro, anche se è un desiderio che nascondiamo a noi stessi: ci pensiamo come individui autonomi, mentre la verità, che il romanzo mette a nudo, è che siamo imitatori. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Ma questa imitazione genera presto un conflitto. Le cose che possiede l'altro che cerchiamo di imitare non sono sempre a disposizione di tutti. Don Chisciotte può senz'altro imitare Amadigi di Gaula senza entrare in conflitto con lui, ma in un contesto sociale ed economico colui che desidera ciò che io possiedo diventa inevitabilmente un rivale. E' così che <span><b style="background-color: white;">il desiderio mimetico sfocia nella violenza</b></span>. E per Girard non è una violenza tra le altre, ma la più radicale forma di violenza sociale. Qualcosa che minaccia l'esistenza stessa della società, e che le società devono esorcizzare. Lo strumento che le culture usano per esorcizzare questa violenza che sempre le minaccia è il sacro. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
E' questa la tesi che Girard sviluppa a partire da <i>La violenza e il sacro</i> del 1972.
Che il sacro abbia un rapporto con la violenza è evidente dalla pratica, universalmente diffusa, del sacrificio. Come si spiega che in tante culture si ricorra al sacrificio rituale? Il conflitto legato al desiderio genera una violenza che culmina nell'uccisione. L'uccisione a sua volta causa la vendetta. Si innesca così un meccanismo violento che si autoalimenta, perché la vendetta chiama altra vendetta, in un processo senza fine. Nelle società in cui esistono istituzioni giudiziarie l'escalation viene contenuta dall'intervento della magistratura, che punendo il colpevole rende non più necessaria la vendetta. Nelle società primitive invece interviene la religione, <span style="background-color: white;"><b>indirizzando la violenza di tutta la collettività verso una sola vittima - il capro espiatorio - che viene sacrificata</b></span>. La scelta della vittima sembra casuale e cambia nelle diverse culture: in alcune sono gli schiavi, in altre i bambini, in altre ancora i soggetti con minorazioni. Per Girard la logica è quella di scegliere vittime che abbiano qualche rapporto con la comunità, ma non troppo stretto; che dunque possano essere uccise senza che i parenti ricorrano alla rappresaglia. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Questo non vuol dire che la religione sia solo violenta. La religione è quella violenza che consente di minimizzare la violenza sociale. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Il religioso primitivo - scrive Girard - addomestica la violenza, la regola, la ordina e la incanala allo scopo di usarla contro ogni forma di violenza propriamente intollerabile e questo in una generale atmosfera di non violenza e di acquietamento. Definisce una strana combinazione di violenza e di non violenza. Si può dire più o meno la stessa cosa del sistema giudiziario. <span style="font-size: xx-small;">[1]</span></blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Il sistema giudiziario funziona in modo infinitamente più efficace del sacro, ma segue una logica non diversa. Impedisce la vendetta assumendone il monopolio ed esercitando una violenza legittima su colui che condanna. In questo caso la vittima della violenza non viene vendicata non perché non c'è nessuno che abbia solidi legami con lei, ma perché la violenza giudiziaria si presenta come super partes, al servizio della comunità e non di gruppi particolari. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Negli anni successivi, a partire dal libro <i>Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo</i> (1978), Girard ha sviluppato e completato la sua teoria del sacro con una interpretazione del <span style="background-color: white;"><b>cristianesimo come religione che svela il meccanismo violento della religione</b></span>. Nel Vangelo Gesù Cristo compare come vittima sacrificale, ma è una vittima che viene presentata come innocente, mentre il sacrificio richiede la colpevolizzazione della vittima. La condanna a morte di un uomo-dio assolutamente innocente da un lato mette in luce e condanna il meccanismo sacrificale, rappresentato dalla figura di Satana, e dall'altra mostra la possibilità di una concezione del divino estranea alla violenza ed al sacrificio. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Note</b> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
1.
R. Girard, <i>La violenza e il sacro</i>, tr. it., Adelphi, Milano 1980.
</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/14750366120649219555noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-67471291139635420802020-04-04T15:59:00.001+02:002023-04-10T07:48:10.303+02:00Realismo capitalista<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj9Yb0hJUdM8lp8fX4Pc6eUPlblBlXyr6tDWiDKwYflxoE3K5_16Xg5O3zalL2bvSyDC7kZkUSMtsxw-IhGgBICdqJ5R9gqnQhjVwfA6oZRHwlhX_2XzyY7avpBrGHh6CG7a1_-JxoB2zM/s1600/fisher.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="480" data-original-width="800" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj9Yb0hJUdM8lp8fX4Pc6eUPlblBlXyr6tDWiDKwYflxoE3K5_16Xg5O3zalL2bvSyDC7kZkUSMtsxw-IhGgBICdqJ5R9gqnQhjVwfA6oZRHwlhX_2XzyY7avpBrGHh6CG7a1_-JxoB2zM/s1600/fisher.jpg" /></a></div>
<br /><div style="text-align: left;">Dopo la crisi del comunismo successiva al crollo del muro di Berlino, è entrata in crisi qualsiasi ipotesi di alternativa politica ed economica al capitalismo, che oggi si presenta non come un sistema, ma come <span><b style="background-color: white;">l'<i>unico</i> sistema possibile</b></span>. In altri termini, il capitalismo si presenta oggi come <i>la</i> realtà stessa, non come <i>una</i> realtà. E' questa la tesi di <i>Realismo capitalista</i>, del filosofo e blogger britannico <span style="background-color: white;"><span>Mark Fisher</span>.</span> Nella figura di Kurt Cobain, cantante dei Nirvana, Fisher scorge l'impotenza di fronte a un sistema in grado di inglobare qualsiasi opposizione. La rabbia di Cobain, che dà voce alla disperazione della sua generazione, è spettacolo, dunque merce. Fa parte del sistema al quale vorrebbe opporsi. Il sistema capitalistico non si presenta come un regime oppressivo. Il suo potere agisce in modo complesso e sottile. Un film come <i>Wall-E</i>, afferma Fisher, può mettere in scena una umanità devastata dal capitalismo, con la certezza che ciò non susciterà alcuna vera rivolta contro il sistema: <b style="background-color: white;"><span>il film stesso diventa un prodotto di consumo</span>, l'anticapitalismo spettacolare una merce come le altre</b>.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;">
"Ora: dal momento che il realismo capitalista sembra dipanarsi senza fratture o
strappi, e visto che le attuali forme di resistenza appaiono tanto impotenti e
disperate, in che modo possiamo davvero contrastarlo?", si chiede Fisher. La risposta è che <b style="background-color: white;"><span>bisogna centrare l'attenzione sui <i>reali</i></span>, ossia le fratture, le contraddizioni che il sistema non riesce a risolvere</b>. Fischer ne indica tre.</div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">Il primo è <b>la catastrofe ambientale</b>, che mostra che il capitalismo, con la sua pretesa di sfruttamento illimitato delle risorse naturali, minaccia ora di distruggere l'intero pianeta.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">Il secondo, sul quale soprattutto Fisher si sofferma, è <b>la depressione</b>. Come Cobain, Fisher è morto suicida (nel 2017, all'età di quarantotto anni) dopo una lunga lotta contro la depressione documentata dai suoi stessi scritti. In Gran Bretagna, osserva Fisher, la depressione è la malattia principale affrontata dal sistema sanitario. <span><b style="background-color: white;">Il capitalismo non riesce a impedire che le persone siano profondamente infelici</b></span>; ma, anche se molte persone sono depresse, la loro sofferenza non diventa un problema comune. C'è una "privatizzazione dello stress" che fa sì che chi ne soffre si consideri un malato da curare, non chi sconta sulla propria salute le conseguenze di un sistema sbagliato.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /><div style="text-align: left;">Il terzo reale è <b>la burocrazia</b>, che nel tardo capitalismo non è scomparsa, ma ha cambiato forma, diventando più capillare e pervasiva, pur in una apparente situazione di minor controllo. Scrive Fisher:</div>
<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: left;">
La nuova burocrazia non è più una funzione delimitata e specifica portata
avanti da determinate figure professionali, ma invade ogni area del lavoro col
risultato che – come pronosticato da Kafka – i lavoratori diventano i controllori
di se stessi, obbligati a valutare le proprie stesse prestazioni. Prendiamo ad
esempio il nuovo sistema adottato dall’OFSTED (Office for Standards in
Education) per le ispezioni nei college d’istruzione post-scolastica. Col vecchio
sistema, i college erano oggetto di minuziose ispezioni una volta ogni quattro
anni circa: di solito, queste prevedevano un largo numero di ispettori e
l’osservazione dal vivo di diverse lezioni. Nel nuovo sistema invece, quello "ottimizzato", ai college basta dimostrare l’efficacia dei loro controlli interni,
per subire soltanto un’ispezione "leggera". Quello che però queste ispezioni
leggere implicano è ovvio: controllo e monitoraggio vengono esternalizzati
dall’OFSTED per essere sostanzialmente appaltati al singolo college e ai suoi
docenti, diventando un requisito permanente sia della struttura del college, sia
della psicologia del docente.<span style="font-size: xx-small;"> [1]</span></blockquote>
<br /><div style="text-align: left;">L'opposizione al sistema per Fisher deve partire da queste contraddizioni del sistema, con forme di lotta nuove che da un lato richiamino su di esse l'attenzione, e dall'altro le contrastino in tutte le forme politiche. La prima strategia vale per la malattia mentale e la depressione, che esprimono un disagio che deve essere indirizzato contro il sistema; la seconda, per la burocratizzazione del lavoro, contro la quale i lavoratori sono chiamati a ribellarsi rivendicando autonomia e rifiutando alcuni tipi di lavori. Per Fisher queste lotte sociali potrebbero richiedere "organizzazioni politiche radicalmente nuove".</div>
<br />
<h4>
Note</h4>
1. M. Fisher,<i> Realismo capitalista</i>, tr. it., NERO, Roma 2017, p. 106. | 2. Ivi, p. 150.<br />
<br />
<br /></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-87894306202139735612020-04-04T15:13:00.002+02:002023-04-09T08:18:22.653+02:00Caduta libera<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMJxLAnKXodGCovopcDp6FoXMXsywPQUnftY_7U7L1AEeZc5jIuUyf4qf1xt3TGLWdfL4JxrNlFzwtMwOWSrubXGGmyDJ63CIS9YkOjn5Gzq9vP92RMkEK5H2Khc4G8eCn_aakMNsHHqg/s1600/nosedive.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="460" data-original-width="740" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMJxLAnKXodGCovopcDp6FoXMXsywPQUnftY_7U7L1AEeZc5jIuUyf4qf1xt3TGLWdfL4JxrNlFzwtMwOWSrubXGGmyDJ63CIS9YkOjn5Gzq9vP92RMkEK5H2Khc4G8eCn_aakMNsHHqg/s1600/nosedive.jpg" /></a></div>
<br /><div style="text-align: left;">In un futuro imprecisato tutte le interazioni sociali conducono ad <span style="background-color: #ffe599;">un punteggio su un social network universale</span>. Ognuno ha impiantate delle lenti a contatto evolute che consentono di individuare tutte le persone con cui si ha a che fare ed accedere al suo punteggio personale sul social network; dopo l'interazione è possibile dare un voto, in modo da aumentare o diminuire il suo punteggio.. Il punteggio ottenuto dall'insieme delle interazioni sociali ha una influenza decisiva sulle possibilità nella vita reale: chi ha un alto punteggio può accedere a beni e servizi riservati, mentre con un punteggio basso si può essere perfino esclusi dal lavoro.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
E' questa la situazione immaginata da <i>Nosedive</i> (Caduta libera), primo episodio della terza stagione della serie televisiva <i style="background-color: #ffe599;">Black Mirror</i><span style="background-color: white;">, la serie prodotta da Charlie Brooker</span>. La protagonista, Lacie Pound, vorrebbe acquistare un appartamento, ma il suo punteggio non le consente di accedere all'acquisto. Una vecchia amica con un altissimo punteggio la invita come damigella d'onore al suo matrimonio. Per Lacie è l'occasione per incrementare il suo punteggio grazie all'interazione con persone ben collocate nel social, ma una serie di imprevisti fanno sì che il suo punteggio crolli rapidamente, stravolgendo i suoi piani.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Come tutta la serie, l'episodio fa riflettere sulle conseguenze potenzialmente disastrose delle innovazioni tecnologiche. Ad una prima lettura, è una denuncia dei rischi dei social network e del meccanismo della gratificazione reciproca attraverso i <i>like</i>. Ma si tratta anche di una efficace illustrazione dei meccanismi ordinari che sostengono lo <span style="background-color: #ffe599;">status sociale</span>. Per ottenere un buon punteggio occorre mostrarsi gentili, essere curati fisicamente e rassicuranti. Queste sono le condizioni che normalmente consentono di ottenere riconoscimento e rispetto nei contesti sociali, così come è normale e frequente la "caduta libera" della perdita di status come processo che si auto-alimenta dopo i primi passi falsi. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Nell'episodio è evidente la discriminazione sociale legata al punteggio sul social. La protagonista, ad esempio, ha bisogno di noleggiare un'automobile, ma le automobili migliori sono riservate solo a chi ha un punteggio alto; a lei resta un'automobile vecchia e malandata, che le darà gravi problemi. Intere aree sono vietate all'ingresso di chi ha il punteggio al di sotto di una certa soglia. Se il noleggio non fosse stato possibile perché troppo costoso, la scena sarebbe sembrata normale, così come è normale che non si possa entrare in alcune aree perché non si è in grado di pagare il biglietto o la tessera d'iscrizione. Nella società in cui viviamo il denaro ha la stessa funzione del social network nell'episodio: agisce come fattore di creazione dello status (non l'unico, ma ha un ruolo determinante) e di conseguente discriminazione sociale. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
In una situazione sociale come quella dell'episodio si attua un capillare controllo che rende la vita sociale falsa, inautentica. Ed è questo il rischio di qualunque forma di <span style="background-color: #ffe599;">controllo sociale</span> che superi una certa soglia. Chiunque abbia personalità o segua il richiamo dell'autenticità - nell'episodio, la camionista Susan, il cui punteggio è sceso rapidamente dopo la malattia e la morte del marito - viene costretto ai margini o addirittura espulso. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<p><span style="font-family: courier;"><span><span><i>Nosedive</i>, Serie <i>Black Mirror</i>, terza stagione, episodio 1.<br /></span></span><span><span>Regia: Joe Wright<br /></span></span><span><span>Sceneggiatura: Charlie Brooker<br /></span></span><span><span>Paese: Stati Uniti<br /></span></span><span><span>Interpreti principali: Bryce Dallas Howard (Lacie Pound); Alice Eve (Naomi Blestow); Cherry Jones (Susan)<br /></span></span><span><span>Durata: 63 minuti<br /></span></span><span><span>Disponibile su Netflix</span></span></span></p>
</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-22739861946088776122019-04-12T08:17:00.000+02:002020-03-24T21:57:07.106+01:00La società della prestazione<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgoeBUSaekSr3xIRLh6fyafTjiKxs_HgoEe51iQtOIPTwSXXwRxFeCpkpdec10ZCkPnyEvUAN1ZL1GqEFGiAyG3yoOjAmsuPYbx4CGkrCyiJeDzMgb4UvTI31rFwrrmK1JWBHjSDxlCMYc/s1600/han.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="320" data-original-width="860" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgoeBUSaekSr3xIRLh6fyafTjiKxs_HgoEe51iQtOIPTwSXXwRxFeCpkpdec10ZCkPnyEvUAN1ZL1GqEFGiAyG3yoOjAmsuPYbx4CGkrCyiJeDzMgb4UvTI31rFwrrmK1JWBHjSDxlCMYc/s1600/han.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Byung-Chul Han</td></tr>
</tbody></table>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Se il Novecento è stato il secolo delle infezioni, il ventunesimo secolo è per Byung-Chul Han l'epoca delle malattie neuronali: depressione, disturbo borderline, sindrome da deficit da attenzione eccetera. L'infezione, che va intesa qui in senso figurato, è dovuta ad un batterio, ossia un corpo estraneo che minaccia l'equilibrio dell'organismo. Fino alla Guerra Fredda ed oltre, il Novecento ha visto la presenza dell'altro come estraneo dalla cui minaccia occorre difendersi se necessario anche con la guerra. Nelle società contemporenee per Han invece l'estraneo ha smesso di rappresentare una minaccia, anzi scompare come tale (<i>La scomparsa dell'Altro</i> è il titolo di un suo libro); anche l'immigrato o il profugo non è più avvertito come una minaccia, bensì come un peso.<br />
<a name='more'></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Il cessare della percezione della minaccia non comporta però il cessare della violenza. Esiste una violenza che nasce dalla negatività (la guerra, il rifiuto dell'estraneo), ma esiste anche <span style="background-color: #fff2cc;">una <i>violenza neuronale</i> che nasce dalla positività</span>. In un sistema sociale ed economico che spinge tutti verso la massima produttività, sempre più persone hanno una reazione di rigetto: soffrono di stanchezza, affaticamento, incapacità di adeguarsi ai ritmi chiesti dal sistema. La società del XXI secolo, per Han, non è più la società disciplinare descritta da Michel Foucault, nella quale il potere si esprimeva con forme capillari di controllo sociale. Oggi non c'è più nessun bisogno di controllo dall'esterno, perché ognuno controlla sé stesso. <span style="background-color: #fff2cc;">La società della prestazione (<i>Leistungsgesellshaft</i>) trasforma le persone in soggetti di prestazione</span>, impegnati costantemente a vendere sé stessi sul mercato adeguandosi spontaneamente a ciò che esso richiede, senza alcun bisogno di pressioni esterne. Questo soggetto iperattivo non è più capace di vera attenzione, trascinato dal processo continuo di produzione: "L'attenzione profonda viene progressivamente sostituita da una forma di attenzione ben diversa, l'iper-attenzione (<i>hyperattention</i>). Il rapido cambiamento di focus tra compiti, sorgenti d'informazione e processi diversi caratterizza questa attenzione dispersa" [1].</div>
<div style="text-align: justify;">
Se nella società disciplinare erano possibili forme di contestazione del potere, oggi il sistema neoliberale rende improbabile qualsiasi critica. Nel capitalismo classico il datore di lavoro sfruttava il lavoratore; nel sistema neoliberale è il lavoratore che, concependosi come imprenditore di sé stesso, si sfrutta da sé il favore dell'azienda. Il conflitto di classe si sposta dunque dalla società all'interiorità stessa del lavoratore: per ogni fallimento non incolpa più il sistema, ma solo sé stesso. </div>
<div style="text-align: justify;">
In una società simile non c'è più alcun reale bisogno di controllo. Come scrive in <i>Psicopolitica</i>, "<span style="background-color: #fff2cc;">Il Grande Fratello digitale esternalizza, per così dire, il suo lavoro ai detenuti"</span> [2]. Le persone spontaneamente si sottopongono al controllo, attraverso i social network offrono ogni possibile informazione su di sé, si presentano allo sguardo comune alla ricerca disperata di consenso; il controllo diventa capillare, ma ognuno ha l'illusione di essere libero. In una società centrata sulla positività bisogna bandire da sé ogni negatività, auto-ottimizzarsi costantemente. Se il sistema disciplinare era rappresentato da Panottico, il carcere progettato da Jeremy Bentham nel quale ogni detenuto può essere osservato in qualsiasi momento senza saperlo, nella società neoliberale per Han si ha il <i>Bannoptikum</i>, "un dispositivo che identifica ed esclude le persone ostili al sistema o incapaci di adattarsi ad esso" [3]. La possibilità del bando, di essere ricacciati al fondo da una società in cui si è persi se non si è in grado di fornire sempre la massima prestazione e la migliore rappresentazione di sé, provoca una forte angoscia, che genera da un lato l'odio verso sé stesso (perché non si è capaci di essere all'altezza del sistema), dall'altro l'odio verso lo straniero, nella illusione di costruirsi una identità creandosi un nemico immaginario, un altro minaccioso che è irreale, perché "all'interno dell'ordine globale oggi dominante ci sono propriamente soltanto <i>Uguali diversi</i> o <i>Diversi uguali</i>" [4]. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="box">
<div style="text-align: justify;">
Nato a Seul nel 1959, Byung-Chul Han vive in Germania dagli anni Ottanta. Insegna alla Universität der Künste di Berlino.
</div>
</div>
<b><span style="font-size: small;"><br /></span></b>
<b><span style="font-size: small;">Note</span></b><br />
<span style="font-size: small;">[1] Byung-Chul Han,<i> La società della stanchezza</i>, tr. it., nottetempo, Roma 2012. [2] Byung-Chul Han, <i>Psicopolitica</i>, tr. it., nottetempo, Roma 2016, p. 18. [3] Byung-Chul Han, <i>L'espulsione dell'Altro</i>, tr. it., nottetempo, Roma 2017. [4] Ivi, p. 23.
</span>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-10525016179806917552018-05-09T07:16:00.001+02:002023-04-09T08:07:44.312+02:00Francisco Ferrer y Guardia<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgCP1nLxlcl_18GuQPWgfvflgN40LlKKq-ZzfoBoOaVE3-P4ljIqX0emXjjcyCe3WjkOlNcB-tkHCUBkLLfOY7CPR1rKZ4Y-rncwhLhMrxxZhNGwcJ2Jk2xpEZr9X2UyJHFmGUJ_fPvSdY/s1600/La-fucilazione-di-Ferrer-opera-di-Flavio-Costantini.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="790" data-original-width="1024" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgCP1nLxlcl_18GuQPWgfvflgN40LlKKq-ZzfoBoOaVE3-P4ljIqX0emXjjcyCe3WjkOlNcB-tkHCUBkLLfOY7CPR1rKZ4Y-rncwhLhMrxxZhNGwcJ2Jk2xpEZr9X2UyJHFmGUJ_fPvSdY/s1600/La-fucilazione-di-Ferrer-opera-di-Flavio-Costantini.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Flavio Costantini, <i>La fucilazione di Ferre</i>r</td></tr>
</tbody></table><br /></div><div style="text-align: left;">
Francisco Ferrer y Guardia nasce ad Alella, villaggio presso Barcellona, nel 1859, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. La morte del padre lo costringe ad abbandonare gli studi ed a lavorare come garzone di bottega; per la sua formazione culturale risulta decisiva l’adesione, a soli quindici anni, alla massoneria. A vent’anni diventa controllore nelle ferrovie. Per aver preso parte ad una sommossa repubblicana nel 1886 è costretto a fuggire a Parigi, dove insegna spagnolo, fa da segretario al leader repubblicano Ruiz Zorrilla e perfeziona la sua formazione politica incontrando alcuni dei maggiori rappresentanti dell’anarchismo del tempo.</div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;">Dopo aver ereditato le ricchezze di una donna conservatrice che aveva seguito i suoi corsi di spagnolo, decide di mettere in pratica le sue idee pedagogiche e politiche aprendo una scuola libertaria. La Scuola Moderna viene inaugurata a Barcellona nel 1901.</div>
<a name='more'></a></div>
<div style="text-align: left;">
Nel 1906 un ex bibliotecario della scuola, Mateo Morral, compie un attentato contro re Alfonso XIII. Francisco Ferrer, accusato di cospirazione, viene incarcerato per undici mesi; la Scuola Moderna chiude. Dopo l’assoluzione Ferrer abbandona la Spagna e fonda a Bruxelles la Lega internazionale per l’educazione razionale dell’infanzia. Poco dopo il suo ritorno a Barcellona scoppia l’insurrezione della <span style="background-color: #ffe599;">Settimana Tragica</span>. In seguito alla ripresa delle attività coloniali in Marocco, il governo decide di richiamare truppe di riservisti. Questa decisione provoca una rivolta popolare ispirata da anarchici e repubblicani che sfocia in violenze indirizzate in particolare contro le chiese ed altre istituzioni cattoliche. Anche per questo Francisco Ferrer, il cui impegno è sempre stato caratterizzato da un forte anticlericalismo, viene accusato di essere tra i promotori della rivolta. Condannato in un processo della durata di un solo giorno, viene condannato a morte pur in assenza di prove del suo coinvolgimento nella rivolta. La notizia della condanna morte provoca un’ondata di scioperi e di proteste in tutta Europa, che però non sortiscono alcun effetto: Ferrer viene fucilato il 13 ottobre del 1909. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>Il contesto</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong><br /></strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div><div style="text-align: left;">La fine dell’Ottocento è caratterizzata in Spagna dal contrasto tra il tradizionalismo cattolico, dominante nel paese e con una vasta influenza sull’educazione, e forti tendenze innovative a carattere politico e culturale. Una <span style="background-color: #ffe599;">circolare del ministro Manuel Orovio</span> nel 1875 poneva limiti precisi alla libertà d’insegnamento: affermando il carattere confessionale dello Stato ed il legame tra monarchia e Chiesa cattolica, negava il diritto per gli insegnanti di esprimere opinioni in contrasto con i dogmi cattolici: “Se la maggioranza e la quasi totalità degli spagnoli sono cattolici e lo Stato è cattolico, l’insegnamento ufficiale deve obbedire a questo principio, assoggettandosi a tutte le sue conseguenze. Partendo da questa base, il Governo non può consentire che nelle cattedre sostenute dallo Stato si insegni contro un dogma che è la verità sociale della nostra patria”. Il decreto suscitò una vasta reazione presso i docenti universitari liberali, molti dei quali furono costretti a lasciare la cattedra, mentre altri si dimisero spontaneamente per protesta. La libertà d’insegnamento fu ristabilita nel 1881, ma rimase una forte ipoteca confessionale sull’istruzione, a tutti i livelli.</div><div style="text-align: left;"><br /></div></div>
<div style="text-align: left;">
Tra i docenti destituiti dalla cattedra ci fu <span style="background-color: #ffe599;">Francisco Giner de los Ríos</span> (1839-1915), un pensatore influenzato profondamente dalle idee del filosofo tedesco <span style="background-color: #ffe599;">Karl Krause</span> (1781-1831), che ha lasciato scarse tracce in patria ma ha segnato la cultura liberale spagnola di fine Ottocento. Il krausismo si pone in Spagna come un movimento di rigenerazione nazionale, avanzando una istanza umanistica e proposte riformistiche per rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il libero sviluppo dell’umanità, concepita come un grande organismo che procede verso una situazione finale di armonia ed equilibrio. Espressione pedagogica del krausismo è la <span style="background-color: #ffe599;">Institución Libre de Enseñanza</span>, fondata da Giner de los Ríos ed altri intellettuali krausisti nel 1876. La Institución sarà il principale centro diffusore delle idee progressiste anche in campo pedagogico. L’educazione doveva favorire lo sviluppo autonomo ed armonico dei bambini, a stretto contatto con la natura, con la piena valorizzazione del gioco ed il rifiuto di premi e castighi, considerati corruttori. Nei confronti delle confessioni religiose l’insegnamento nella Institución manteneva un atteggiamento di neutralità, cercando di favorire un clima di rispetto e di tolleranza religiosa.</div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
La Scuola Moderna di Ferrer y Guardia si pone per diversi aspetti in continuità con la Institución Libre de Enseñanza, ma se ne distingue poper una maggiore radicalità, dovuta alle idee anarchiche del suo fondatore.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong style="line-height: 1.5em;">La Scuola Moderna</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong style="line-height: 1.5em;"><br /></strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQD_5qKOlfNgeHvUIc-H3DdorAKzDR6WckDiugjc8NYDWtx0fujmMZ80ylOJm95_O5mcn2vx7FkkI38AGpzA7O8Nlgr4uOsBBEAu-9KlNXeHqKce87CZhQyxfb184M7LChWU6by4kZm1g/s1600/bollettino.jpg" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQD_5qKOlfNgeHvUIc-H3DdorAKzDR6WckDiugjc8NYDWtx0fujmMZ80ylOJm95_O5mcn2vx7FkkI38AGpzA7O8Nlgr4uOsBBEAu-9KlNXeHqKce87CZhQyxfb184M7LChWU6by4kZm1g/s1600/bollettino.jpg" width="226" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">[Il Bollettino della Scuola Moderna]</td></tr>
</tbody></table><div style="text-align: left;">Per Ferrer nemmeno lo sviluppo scientifico è sufficiente per sperare in un rinnovamento dell’educazione. Gli scienziati giungono via via ad una conoscenza più profonda del bambino e della sua psicologia, che naturalmente è la premessa di metodi educativi meno imperfetti. Ma non si avrà una scuola nuova solo grazie alle conquiste scientifiche, perché quello della scuola è un problema politico, e come tale richiede una decisione politica. Non è difficile immaginare che il potere possa riorganizzare le scuole in modo da tener conto delle conquiste scientifiche, senza però che cambi sostanzialmente il loro carattere repressivo e conservatore.</div><div style="text-align: left;"><br /></div></div>
<div style="text-align: left;">
La scuola nuova può nascere solo da un chiaro <span style="background-color: #ffe599;">ideale politico</span>, che per Ferrer è quello anarchico. Scrive: “Non abbiamo timore di affermarlo: noi vogliamo uomini capaci di evolversi continuamente, capaci di distruggere, di rinnovare di continuo gli strumenti e di rinnovare se stessi; uomini la cui forza consista nell’indipendenza intellettuale, che non si sottomettano mai a nulla, sempre disposti ad accettare il meglio, felici per il trionfo delle idee nuove, che aspirano a vivere molte vite in una sola vita”. Questo il fine; quali i metodi? Per Ferrer è una questione non facile, proprio perché fino ad ora la scuola è stata uno strumento di repressione. Bisognerà cominciare da zero, sperimentando, tentando, valorizzando i contributi della scienza, evitando soprattutto di riprodurre la scuola tradizionale.</div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
L’insegnamento per Ferrer dovrà essere <span style="background-color: #ffe599;">razionale e scientifico</span>. Se la scuola tradizionale dà grande spazio a quelle che per Ferrer sono le superstizioni della religione, la scuola nuova dovrà affrontare ogni argomento con il rigore e l’oggettività delle sci<span style="font-family: "gentium basic" , serif;"><i>—</i></span> farà piazza pulita degli errori del passato e lavorerà per la costruzione di una società libera e giusta. La religione e la politica hanno impedito agli uomini di conquistare l’autonomia, insegnando loro a dipendere da Dio o da altri uomini (la classe politica). Ora bisognerà educare i bambini a non dipendere da nessuno, a fare da sé, passando dal paradigma verticale dell’obbedienza a quello orizzontale della solidarietà e della cooperazione.</div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
La Scuola Moderna ha un fine rivoluzionario, che però persegue indirettamente. Getta le basi per una società diversa educando in modo completo, non incitando fin da piccoli alla ribellione ed all’odio di classe. Per questa ragione la Scuola Moderna non è una scuola per bambini poveri, ossia una scuola di classe. Le classi oppresse devono ribellarsi; ma la Scuola Moderna, afferma Ferrer, “non anticipa né amori né odi, né adesioni né ribellioni, che sono doveri propri degli adulti”. Nella Scuola Moderna si pratica la <span style="background-color: #ffe599;">coeducazione delle classi sociali</span>. Bambini ricchi e bambini poveri si educano insieme in un clima di eguaglianza che è già una anticipazione della uguaglianza della società futura. Un’altra forma di eguaglianza necessaria è quella tra i sessi, che è per Ferrer una necessità dei tempi, anche se ancora lontana dall’ottenere unanime riconoscimento. Nella Scuola Moderna vige dunque la <span style="background-color: #ffe599;">coeducazione dei sessi</span>, la quale non solo consentirà alle donne di affrancarsi dal focolare domestico e di partecipare pienamente alla vita sociale, ma le renderà anche madri migliori, capaci di educare fin da piccoli i loro figli secondo il punto di vista scientifico.</div><div style="text-align: left;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
Il principio di uguaglianza e solidarietà che anima la scuola è incompatibile con il sistema dei premi e dei castighi e con i voti e gli esami. Essi servono a classificare gli alunni, a distinguerli, a contrapporli gli uni agli altri. Le conseguenze negative causate dal sistema degli esami per Ferrer non sono poche: “la vanità farneticante nei premiati; l’invidia roditrice e l’umiliazione, ostacoli a sane attività, in coloro che non hanno vinto; negli uni e negli altri, in tutti quanti infonde quei sentimenti che danno vita alle diverse sfumature dell’egoismo”. Il sistema degli esami è adeguato ad una società gerarchica, nella quale viene premiato chi meglio si adatta alla società e si compiono continue selezioni, dalla dubbia affidabilità, in seguito alle quali il potere conferisce a chi vi si sottopone un lavoro o un incarico. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;">Nell’economia capitalistica il desiderio è stato deviato: non si desidera <i>insieme</i> agli altri, ma <i>contro</i> di loro; si desidera soprattutto conquistare denaro, e per ottenerlo si è disposti a sottoporsi prima alle sofferenze scolastiche, poi ad un lavoro che non piace. La società capitalistica appare a Ferrer come una società infelice, in cui ad essere alienati non sono soltanto i proletari, costretti a vendere la propria forza lavoro, ma gli stessi borghesi, che nella ricerca del denaro smarriscono il contatto con le radici della vita. L’educazione disfa, per così dire, questo processo sociale. Senza alcuna forzatura, l’educatore asseconda il desiderio del bambino di passare dal gioco al lavoro vero e proprio. Gli propone un lavoro strutturato, nel quale troverà il piacere di realizzare sé stesso, e solo in seguito, seguendo lo sviluppo naturale dei suoi interessi, passa all’istruzione formale. Quel che conta è che il bambino non faccia nulla contro la sua volontà, per paura o conformismo, o peggio per il desiderio innaturale di prevalere sugli altri, ma che venga aiutato a comprendere la possibilità di realizzare sé stesso non contro, ma insieme agli altri.</div>
<br />
<b>Torna al percorso:</b> <a href="http://www.discorsocomune.info/p/le-prime-scuole-nuove.html">Le prime scuole nuove</a><br />
<br /></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-38831362596144730622018-02-28T19:04:00.000+01:002020-04-03T10:38:46.230+02:00Carl Gustav Jung<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYcbHHqGmoy0HjH7hQORXUYnh-_ZAtslkn1wW-HPDN8dLa_bnafsANz7nMotzLviieLwJdW9qSFkHwzP6FmsNRFBKz3wyQlFXCZQ7DU_O65MbGNCB6oH2AmFvDxCulHZ2-IdlqlZsmeVQ/s1600/jung.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="240" data-original-width="380" height="404" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYcbHHqGmoy0HjH7hQORXUYnh-_ZAtslkn1wW-HPDN8dLa_bnafsANz7nMotzLviieLwJdW9qSFkHwzP6FmsNRFBKz3wyQlFXCZQ7DU_O65MbGNCB6oH2AmFvDxCulHZ2-IdlqlZsmeVQ/s640/jung.jpg" width="640" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<br />
Tra i successori di Freud, Carl Gustav Jung è l'unico che a lui si possa paragonare per l'influenza avuta sulla cultura contemporanea. Se Freud si è interrogato sul significato di fenomeni culturali come l'arte e la religione, Jung, guidato dalla sua concezione dell'inconscio collettivo, ha studiato in modo approfondito le rappresentazioni mitologiche e religiose dei diversi popoli, oltre all'arte ed alla letteratura, alle filosofie orientali ed all'alchimia. La <span style="box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">sua ricerca si colloca dunque in una zona di confine, dove lo studio della psiche si incontra con la ricerca etnografica e antropologica.</span></div>
<div style="box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="box-sizing: border-box; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px;"><span style="background-color: white;">Nei suoi primi studi, Jung si è occupato delle psicosi ed in particolare della </span><span style="background-color: #ffe599;">dementia praecox</span><span style="background-color: white;">, termine con cui si individuava ciò che oggi si chiama schizofrenia (</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box;">Psicologia della dementia praecox</i><span style="background-color: white;"> è il titolo di una delle prime opere di Jung, del 1907). Al centro della riflessione in questa fase è il concetto di complesso. Jung aveva notato che, chiedendo ai pazienti di rispondere ad una parola-stimolo, si verificavano a volte delle pause eccessive, mentre altre volte il paziente rispondeva con grande precipitazione. I tempi di reazione troppo brevi o t</span></span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">roppo dilatati erano indice, per Jung, dell'esistenza di una precisa realtà psichica: il </span><span style="background-color: #ffe599; font-size: 18px;">complesso</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">. I contenuti della vita psichica sono organizzati in unità minime, che assomigliano alle molecole di un corpo e che possiedono una particolare tonalità affettiva. Jung fa l'esempio dell'incontro con un vecchio amico, che in passato mi ha causato una situazione spiacevole. La percezione sensoriale (l'immagine dell'amico) e le componenti intellettuali (il mio giudizio sull'amico, i ricordi eccetera) si uniscono saldamente con i sentimenti che provo per quell'amico, in modo tale che si può affermare che il complesso ha una sua “tonalità affettiva” </span><span style="background-color: white; font-size: xx-small;">[1]</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">.</span></div>
<br />
<a name='more'></a><br />
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="font-size: 18px;">Il metodo dei tempi di reazione fu adoperato in qualche caso da Jung come una sorta di test della verità. Si sospettava che un ragazzo di diciotto anni avesse compiuto dei furti nella casa del suo protettore. Per verificare la fondatezza del sospetto, Jung sottopose il giovane ad un test dell'associazione, sottoponendogli una lista di parole alle quali gli si chiedeva di rispondere con la prima parola che gli venisse in mente. Trentasette di queste parole erano state scelte strategicamente per evocare la situazione del furto, e furono proprio queste parole a tradire il giovane, che rispose ad esse con un tempo di reazione decisamente maggiore, in qualche tempo inceppandosi anche nella risposta. Alla fine, quando gli si rivelò lo scopo del test ed il suo risultato, il giovane confessò in lacrime il suo furto. Le parole scelte da Jung, e mimetizzate tra le altre, erano riuscite a portare alla luce il complesso legato al furto </span><span style="font-size: xx-small;">[2]</span><span style="font-size: 18px;">.</span></div>
<div style="box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="background-color: white;">I complessi sono autonomi rispetto alla coscienza, possono spingersi fino ad assumere una identità propria, a presentarsi come un Io distinto. </span><span style="background-color: #ffe599;">La coscienza stessa, del resto, è un complesso, una massa di rappresentazioni unite dalla tonalità affettiva data dal proprio corpo.</span><span style="background-color: white;"> In altri termini, l'Io esprime psicologicamente l'insieme di tutte le sensazioni legate al corpo. Rispetto al complesso dominante dell'Io, i complessi risultano inconsci; la patologia psichica nasce dal loro conflitto inconscio, e pertanto va affrontata individuando analiticamente i complessi che ne sono la causa e procedendo quindi ad istituire tra essi un legame.</span></div>
<br style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px;" />
<span style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px; font-weight: 700;">La libido </span><br />
<br />
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
Jung comprende fin dall'inizio l'importanza degli <i style="box-sizing: border-box;">Studi sull'isteria</i> e soprattutto della <i style="box-sizing: border-box;">Interpretazione dei sogni</i>, difendendo l'opera freudiana dalle critiche e dal vero e proprio scherno con cui fu accolta da parti consistenti della scienza ufficiale dell'epoca. Con Freud, Jung condivide la distanza dalla psicologia sperimentale, con il suo procedimento analitico che lascia inesplorate le grandi realtà della psiche umana. Scrive Jung:<br />
<br />
<blockquote class="tr_bq">
Chi vuol conoscere la psiche umana apprenderà ben poco dalla psicologia sperimentale. È meglio che appenda al chiodo la toga dello studioso, dica addio al suo gabinetto di consultazione e vada per il mondo, con cuore umano, a vedere con i propri occhi gli orrori delle carceri, dei manicomi e degli ospizi, le sordide bettole di periferia, le Borse, i convegni dei socialisti, le chiese, i revival e le estasi delle sette, per sperimentare di persona amore e odio, la passione in tutte le sue forme. Ritornerà molto più informato, saprà molto di più di quanto gli insegnerebbero poderosi tomi alti un palmo e potrà essere per i suoi pazienti un vero psicologo. [3]</blockquote>
<br />
<span style="background-color: white; font-size: 18px;">È stato Freud, il “geniale medico viennese”, ad inaugurare questa nuova psicologia, che non se ne sta nel chiuso di un laboratorio, ma investiga il mondo umano nella sua complessità. Jung non condivide, tuttavia, la centralità che nella riflessione freudiana assume il sesso. Già nella </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-size: 18px;">Psicologia della dementia praecox</i><span style="background-color: white; font-size: 18px;">, Jung considera il complesso sessuale come uno dei tanti complessi che sono all'origine dei nostri disturbi mentali, negando ad esso quella valenza generale ed originaria che ha in Freud. Sarà questa differenza di interpretazione che porterà alla rottura tra Freud e Jung, con la pubblicazione di un'importante opera di quest'ultimo, </span><i style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; font-size: 18px;">La libido, simboli e trasformazione</i><span style="background-color: white; font-size: 18px;"> (1914). Freud aveva riconosciuto, nei </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-size: 18px;">Tre saggi sulla sessualità</i><span style="background-color: white; font-size: 18px;">, che la libido può spostarsi, investendo di carica sessuale degli oggetto che non ne hanno alcuna (lo stesso bacio era per Freud un esempio di questo fenomeno, dal momento che la bocca non è legata all'apparato riproduttivo). Prendendo in considerazione la demenza precoce, Jung è indotto ad ampliare la dottrina freudiana della libido. Infatti i malati di demenza precoce non mostrano più alcun interesse per la realtà, non sono più in grado di adattarsi all'ambiente. In questi pazienti vengono a mancare forze pulsionali che non possono essere ricondotte alla sessualità, perché se così fosse chiunque manifesti una introversione della libido (come avviene delle nevrosi: “per esempio, una donna frigida che non riesce a trasferire sull'uomo la libido sessuale a causa di una specifica rimozione sessuale, conserva desta dentro di sé l'imago dei genitori e manifesta dei sintomi che si ricollegano all'ambiente della sua infanzia” </span><span style="background-color: white; font-size: xx-small;">[4]</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">) dovrebbe sperimentare una perdita di senso della realtà paragonabile a quella dei malati di demenza precoce. Così invece non avviene.</span></div>
<div style="box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="background-color: white; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px;">Occorre dunque, per Jung, allargare il concetto di libido, fino a farla coincidere con la volontà in generale (e Jung nomina esplicitamente la </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; font-size: 18px;">volontà</i><span style="background-color: white; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px;"> di Schopenhauer). </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px;">La libido è una pulsione di vita, una forza che cerca la sussistenza dell'individuo e la diffusione della specie.</span><span style="background-color: white; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px;"> Nella prima infanzia, la libido è una pulsione che spinge alla nutrizione ed alla crescita corporea; solo in un secondo tempo essa diventa una vera pulsione sessuale. Vi è tuttavia una evoluzione ulteriore, che porta la libido a concentrarsi sulla protezione della prole. La libido primaria viene progressivamente desessualizzata e applicata in campi diversi dalla riproduzione. Il simbolo gioca un ruolo fondamentale in questo processo. Un oggetto sessuale viene trasformato in una immagine fantastica, in un simbolo (ad esempio, una spada). Il simbolo consente così una sorta di </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px;">spiritualizzazione della libido</span><span style="background-color: white; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px;">. Consideriamo l'incesto. La realizzazione di un desiderio incestuoso è naturalmente resa impossibile (o pericolosa) dal divieto sociale. Tuttavia essa può realizzarsi in qualche modo attraverso il simbolo. La madre viene trasformata fantasticamente in qualcosa d'altro, e la fecondazione avviene informa rituale, senza alcuna conseguenza sociale. Il desiderio incestuoso in questo modo diventa simbolico, si spiritualizza. Qualcosa di simile avviene, per Jung, nel Vangelo, lì dove Nicodemo chiede a Gesù come può un uomo già vecchio rinascere, dal momento che non è possibile tornare nel ventre della madre (incesto), e Gesù gli risponde che la rinascita avverrà nell'acqua e nello Spirito Santo (Giovanni, 3, 4 segg.). L'acqua e lo Spirito rappresentano i simboli che operano la trasformazione della libido. Il desiderio incestuoso viene spiritualizzato grazie al simbolo del battesimo. “In tal modo – scrive Jung – l'uomo ridiventa bambino e rinasce entro una cerchia di fratelli e sorelle, ma sua madre è la 'comunione dei santi', la Chiesa, e la cerchia dei suoi fratelli e sorelle è l'umanità, con la quale è di nuovo unito nella comune eredità di antichissimi simboli” </span><span style="background-color: white; font-family: inherit; font-size: xx-small;">[5]</span><span style="background-color: white; font-family: "ovo" , serif; font-size: 18px;">.</span></div>
<div style="box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="background-color: white; font-size: 18px;">Questa considerazione del messaggio del Cristo non comporta, come si potrebbe credere, una svalutazione del cristianesimo. Per Jung, il cristianesimo ha svolto il compito storico di spiritualizzare la libido; se lo si abbandonasse, “potrebbe pesare sull'umanità un'ebbrezza di depravazione” </span><span style="background-color: white; font-size: xx-small;">[6]</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;"> ed andrebbero perduti tutti i progressi della libido, compiuti attraverso il simbolo e il mito. Ciò non impedisce a Jung di considerare auspicabile il passaggio dalla credenza alla comprensione, vale a dire ad </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px;">una libido spiritualizzata senza alcun ricorso al simbolismo religioso</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">. Si entrerebbe in questo modo nell'epoca “dell'autonomia morale, della completa libertà” </span><span style="background-color: white; font-size: xx-small;">[7]</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">, attraverso la possibilità di comprensione che la psicoanalisi offre.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<br style="box-sizing: border-box;" /></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">L'inconscio collettivo e gli archetipi </span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<br style="box-sizing: border-box;" /></div>
<div style="box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="background-color: white; font-size: 18px;">Non soltanto la concezione della libido subisce un allargamento nella teoria di Jung. Scavando nei miti e nei sogni, nelle fiabe e nelle rappresentazioni religiose, nei simboli degli alchimisti ed in quelli magici, Jung scopre una cosa singolare: esistono alcune immagini che sono universali, che si ritrovano in contesti lontani nello spazio e nel tempo. Chi abbia una conoscenza anche solo superficiale dei testi sacri delle religioni, può ad esempio verificare la presenza del simbolo dell'albero sia nella Genesi (l'albero della vita e l'albero del bene e del male), nella </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-size: 18px;">Bhavagadgita </i><span style="background-color: white; font-size: 18px;">indiana (l'albero Asvattha) e nella mitologia nordica (l'albero cosmico Yggdrasil). Ma Jung scopre anche simboli meno comuni, la cui ricorrenza non può essere casuale. Un suo paziente malato di schizofrenia, ad esempio, aveva la visione di un sole dotato di fallo che oscillando provocava il vento. Jung si sorprese non poco quando scoprì che un simbolo simile, legato anch'esso alla origine del vento, si trovava nella antica religione del dio Mitra </span><span style="background-color: white; font-size: xx-small;">[8]</span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">. Il paziente non avrebbe potuto trarre la propria allucinazione dal mito religioso, poiché il papiro che informava della presenza di questo simbolo nella religione mitraica era stato pubblicato solo di recente e di certo il paziente non ne era a conoscenza. C'era dunque una sola spiegazione: il simbolo del sole con il fallo è un simbolo che si trova dentro di noi, in ognuno, e che emerge tanto nelle visioni degli schizofrenici quanto nei miti e nelle liturgie religiosi. Queste immagini universali sono ciò che Jung chiama </span><span style="background-color: #ffe599;"><span style="box-sizing: border-box; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px;">archet</span><span style="box-sizing: border-box; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px;">ipi</span></span><span style="background-color: white; font-size: 18px;">.</span></div>
<div style="box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="background-color: white;">Dove si trovano questi archetipi? Nell'inconscio, evidentemente, poiché non sono immediatamente accessibili alla coscienza, cui si presentano solo attraverso le immagini. Tuttavia questo inconscio non può essere quello personale, dal momento che si tratta di immagini universali, che prescindono dall'esperienza dei singoli. Si tratterà dunque di un inconscio impersonale, collettivo, che tutti gli uomini hanno in comune. Al di sotto delle differenze di cultura, di lingua, di religione, al di là delle varietà individuali, esiste</span><span style="background-color: white; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;"> </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">un fondo inconscio comune, che si presenta alla coscienza dei singoli e dei popoli attraverso immagini che è possibile confrontare ed interpretare</span><span style="background-color: white;">. Da dove venga questo inconscio collettivo è un problema cui Jung non ha dato una risposta chiara. Esso potrebbe rappresentare, da un lato, il sedimentarsi delle esperienze fatte dall'uomo nel corso dei millenni, la memoria inconscia del cammino e dell'apprendimento della specie umana; dall'altro, potrebbe essere la traccia lasciata in noi da una sorta di anima collettiva, una concezione che appartiene anch'essa al mito più che alla scienza. Quel che è certo, per Jung, è che gli archetipi esistono, e la loro analisi e comprensione è fondamentale per la crescita individuale.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<br style="box-sizing: border-box;" /></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">L'individuazione </span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: Ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<br style="box-sizing: border-box;" /></div>
<div style="box-sizing: border-box; font-family: ovo, serif; font-size: 18px; margin: 0px; padding: 0px; text-align: justify;">
<span style="background-color: white;">La complessità dell'essere umano per Jung non si riduce alle due dimensioni della coscienza e dell'inconscio. Nell'ottica junghiana, quello della personalità è un teatro sul cui palcoscenico compaiono molti attori. La </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">Persona</span><span style="background-color: white;">, in primo luogo. La parola </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box;">persona</i><span style="background-color: white;"> in latino indica, appunto, la maschera che gli attori portavano sul palcoscenico e che caratterizzava il personaggio. Persona è, appunto, la maschera che indossiamo quotidianamente, il lato della nostra personalità che mostriamo agli altri, tutto ciò che noi siamo in relazione ai diversi ambienti in cui ci troviamo a vivere. La Persona rappresenta, in altri termini, il nostro lato esteriore. Il nostro lato interiore, intimo, sentimentale invece è rappresentato dall'</span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">Anima</span><span style="background-color: white;">. In un uomo, l'Anima è anche il lato femminile. Per Jung, infatti, non esiste nulla che sia puro, privo dei segni del suo contrario, e ciò vale anche per la personalità. Un uomo porta in sé qualcosa di femminile, così come la donna ha in sé un lato maschile. Il simbolo cinese, ben noto, dello yin e dello yang (che rappresenta un cerchio diviso in una parte bianca e una nera, ma con un punto bianco nella parte nera e uno nero nella parte bianca) rappresenta alla perfezione questa complementarità di maschile e femminile. E se il femminile nell'uomo è l'Anima, il maschile nella donna è </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">l'Animus</span><span style="background-color: white;">. L'Anima porta l'uomo a quelle idealizzazioni della figura femminile che sono così frequenti non solo nella letteratura e nei miti e nelle leggende, ma anche nella vita quotidiana. L'uomo privo di un rapporto corretto con la propria Anima proietta sulla donna una immagine che in realtà è interiore, esponendosi a delusioni facilmente immaginabili. La donna è spinta dal suo lato maschile, l'Animus, verso la figura dell'eroe, così frequente nei suoi sogni e nel suo immaginario. Nella vita quotidiana, può essere alla base della scelta di un uomo molto più anziano o che, per il ruolo sociale, si ritiene dotato di qualche prestigio particolare. Anche in questo caso un rapporto poco sereno con l'Animus può causare non pochi problemi. Un attore inquietante che compare sul palcoscenico della personalità – e che, a dire il vero, si vorrebbe lasciare dietro le quinte – è l'</span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">Ombra</span><span style="background-color: white;">. Essa rappresenta il lato negativo della nostra personalità, il nostro Mr Hyde, quell'insieme di tendenze, di inclinazioni, di desideri che ci spaventerebbero se ne divenissimo coscienti. Ognuno, volendo, può rendersi conto di questi aspetti della sua personalità. L'atteggiamento più saggio non è il rifiuto, che comporta il rischio di far vivere all'Ombra una vita autonoma, ma l'integrazione dell'Ombra nel resto della personalità, come un attore poco piacevole ma il cui ruolo è indispensabile per la buona riuscita della rappresentazione. L'Io, l'attore che rappresenta la nostra coscienza, non è dunque che un attore tra gli altri. In altri termini, noi non siamo solo la nostra coscienza. Siamo una molteplicità di elementi, spesso in conflitto tra di loro, ma che è anche possibile armonizzare ed equilibrare, proprio come gli attori su un palcoscenico possono essere guidati da un regista. Il </span><span style="background-color: #ffe599; box-sizing: border-box; margin: 0px; padding: 0px;">Sé</span><span style="background-color: white;"> (</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box;">Selbst</i><span style="background-color: white;"> in tedesco) rappresenta questa armonia raggiunta tra i diversi attori della nostra personalità. Non è un elemento psichico come gli altri, ma rappresenta una meta, qualcosa che l'uomo deve sforzarsi di raggiungere durante tutta la sua vita. Il processo con il quale l'uomo realizza il Sé, trovando un equilibrio tra tutti gli elementi della sua personalità, è ciò che Jung chiama individuazione. Alla nascita, noi non abbiamo una personalità sicura, siamo parte del nostro ambiente. Lo sviluppo consiste in una progressiva affermazione della propria singolarità, che passa attraverso alcune tappe universali. In particolare, tra i trenta e i trentacinque anni avviene per Jung una svolta, con la quale si passa nella seconda età della vita e si affrontano problemi fino ad allora sconosciuti. Una persona sana affronta il passare del tempo con serenità ed equilibrio, integrando quegli aspetti negativi che sono rappresentati dall'Ombra e, soprattutto, accettando la morte. Con la vecchiaia, l'uomo si volge verso la realtà interiore e conquista il suo inconscio, attingendo una profondità che è sconosciuta a tutte le altre età della vita. Quando ciò accade, una esistenza esprime una compiutezza che fa pensare ad una figura geometrica che al tempo stesso ha un profondo significato religioso: il mandala. I </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box;">mandala</i><span style="background-color: white;"> sono figure artistiche che appartengono a diverse culture, ed in particolare a quella buddhista tibetana, e vengono usate come supporto per la meditazione. Rappresentano un cerchio al cui interno sono inscritti un quadrato e diverse figure. La circonferenza rappresenta il Sé, che armonizza e chiude gli elementi della personalità in una unità pacificata e pronta ad affrontare il proprio destino.</span><br />
<span style="background-color: white;"><br /></span></div>
<div class="box1">
<b>Note </b><br />
<div style="text-align: justify;">
1. C. G. Jung, <i>Psicologia della dementia praecox</i> (1907), in C. G. Jung, <i>Opere</i>, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1965, vol. 3, pp. 117 segg. | 2. C. G. Jung, <i>La diagnosi psicologica del dato di fatto</i> (1905), in C. G. Jung, <i>Elementi di psicologia</i>, a cura di A. Carotenuto, tr. it., Newton Compton, Roma 1995, pp. 51 segg. | 3. C. G. Jung, <i>Nuove vie della psicologia</i> (1912-1914), in <i>Elementi di psicologi</i>a, cit., p. 136. | 4. C. G. Jung, <i>La libido, simboli e trasformazioni</i>, Newton Compton, Roma 2003, p. 120, nota. | 5. Ivi, p. 206. | 6.Ivi, p. 209. |7.Ivi, p. 212
| 8. Ivi, p. 87. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Bibliografia</b> </div>
<div style="text-align: justify;">
Le opere di Jung sono pubblicate in Italia da Bollati Boringhieri, che propone sia le singole opere, in edizioni economiche, che la raccolta delle opere complete, in diciannove volumi, disponibili anche in ebook. Un valido avviamento allo studio di Jung è la <i>Introduzione a Jung</i> di Henri F. Ellenberger, anch’essa pubblicata daBollati Boringhieri.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>In rete</b> </div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.cipajung.it/">Centro Italiano di Psicologia Analitica</a><br />
<a href="https://www.psicologiajunghiana.it/">Psicologia junghiana</a></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-80659000266994030112017-12-13T12:34:00.000+01:002020-04-08T21:47:00.452+02:00Razza e scienza<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXlwf49fZoucbMn5r1HvIKlNmUOLFSXPzf6mWnqWxgV0uMuhalfWk8cHpeU1wV7NTzzTUF8WlQELOQ5QODjss7jm-FmwBOz4aBMnZcr3hesBTRsh44UyTAwlQEzwkWRO1kitzdRARIPdc/s1600/razzismo.PNG" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="418" data-original-width="610" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXlwf49fZoucbMn5r1HvIKlNmUOLFSXPzf6mWnqWxgV0uMuhalfWk8cHpeU1wV7NTzzTUF8WlQELOQ5QODjss7jm-FmwBOz4aBMnZcr3hesBTRsh44UyTAwlQEzwkWRO1kitzdRARIPdc/s1600/razzismo.PNG" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Immagine di copertina del primo numero de <i>La difesa della razza</i></td></tr>
</tbody></table>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
Il razzismo del Novecento, che si è espresso nel fascismo e nel nazismo e che si è tradotto tragicamente nella persecuzione e nel massacro di ebrei e rom, aveva la pretesa di fondarsi scientificamente. Il <i>Manifesto della razza</i> del 1938, firmato da diversi scienziati tra cui il noto antropologo Lidio Cipriani, affermava che “Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza”. E aggiungeva: “È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili”. </div>
<div style="text-align: justify;">
Si trattava di affermazioni teoriche che anticipavano e intendevano giustificare le <span style="background-color: #fff2cc;">leggi razziali</span> dello stesso anno, rafforzate con la fondazione, nello stesso anno, la rivista <i>La difesa della razza</i>, che fin dalla copertina del primo numero mostrava il suo intendo: separare drasticamente la razza ariana da quella semitica e da quella nera. </div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Lo sviluppo più recente degli studi di paleoantropologia – la scienza che studia i resti fossili degli ominidi – e di genetica (cui ha dato un contributo fondamentale l'italiano <span style="background-color: #fff2cc;">Luigi Luca Cavalli-Sforza</span>) dimostrano che il razzismo scientifico è privo di qualsiasi fondamento. E' falso che esistano razze umane biologicamente distinte ed è falso che i diversi popoli non abbiano una origine comune in Africa.
Biologicamente per razza si intende una sottospecie con caratteristiche genetiche diverse e proprie, significativamente diverse dalle altre. Il genere Homo è comparso in Africa intorno ai due milioni e mezzo di anni fa. L’<span style="background-color: #fff2cc;">Homo ergaster</span>, comparso circa 1,9 milioni di anni fa, possedeva già un corpo slanciato, una rudimentale capacità di lavorazione della pietra, mostrava una prima crescita del volume del cranio e, fattore importantissimo ai fini evolutivi, uno sviluppo mano rapido delle scimmie, che rende possibile la trasmissione culturale. L’Homo ergaster, che si muoveva in gruppi che hanno giù una certa organizzazione sociale, e si ipotizza che conoscesse l’uso del fuoco, si affacciò fuori dall’Africa intorno ai due milioni di anni fa, attraverso la penisola arabica. </div>
<div style="text-align: justify;">
L’<span style="background-color: #fff2cc;">Homo sapiens</span>, la specie cui apparteniamo, è comparso in Africa circa duecentomila anni fa – un tempo molto breve per una specie – e poi si è diffuso in Europa e nel resto del mondo grazie alle migrazioni. Per qualche millennio l’Homo sapiens ha convissuto con altre specie del genere Homo, come l’Homo neanderthalensis (o Uomo di Neanderthal), un ominide caratterizzato da capacità piuttosto raffinate, come il senso estetico e la simbolizzazione. Le due specie si sono sicuramente ibridate, dal momento che nel DNA dell’Homo sapiens è presenta una percentuale (dal 2% al 4%) di DNA dell’Homo Neanderthalensis. </div>
<div style="text-align: justify;">
Poi le altre specie di ominidi si sono estinte, non è chiaro per quale ragione, mentre l'Homo sapiens ha cominciato la colonizzazione dell'intero pianeta.
Gli attuali europei si sono originati da una grande migrazione dal Corno d’Africa, avvenuta intorno a centomila anni fa. I gruppi passarono probabilmente attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb (attualmente è tra Gibuti e Yemen), per arrivare in Europa circa cinquantamila anni fa, mentre altri movimenti migratori hanno portato al popolamento dell’Asia e dell’America. </div>
<div style="text-align: justify;">
Tra questi popoli esistono differenze esteriori che appaiono significative, come il colore della pelle e dei capelli, l’altezza, la forma degli occhi eccetera, tuttavia a livello genetico le differenze sono minime, e comunque non tali da consentire di parlare di razze: <span style="background-color: #fff2cc;">il 99,9% del DNA di tutti i popoli è identico</span>. Questo vuol dire che geneticamente tutti i popoli derivano da un gruppo di primogenitori piuttosto ristretto, appena qualche migliaio di individui. Come scrive l'antropologo Marco Aime, "La moderna genetica ha decostruito ogni possibile tentativo di classificazione degli umani su base biologica, ma il fatto che le razze non esistano non significa che non esista il razzismo" [1]. Per comprendere le ragioni del razzismo bisogna indagarne le ragioni storiche, sociali e psicologiche.
</div>
<div style="text-align: justify;">
<b><br /></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Note</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: x-small;">1. <span style="color: #010101;">M. Aime, </span><i style="color: #010101;">Il punto di vista dell'etnografia</i><span style="color: #010101;">, in L. L. Cavalli Sforza, T. Pievani, </span><i style="color: #010101;">Homo sapiens. La grande storia della diversità umana</i><span style="color: #010101;">, Codice Edizioni, Torino 2011, p. XV.</span></span></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-27995758648508238282017-12-11T07:34:00.000+01:002020-04-03T10:30:07.939+02:00Antonio Gramsci<div style="text-align: left;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBpqxa6vSlV4GCKr_WTDs-vjDKkSBYfJcWiW8pmmbhfTLCd3B0Y7oL5sirsWgE68SYxmFQVfuuK9f2wvl11vavaHFgfXPgsrwxUgDyJpdlzmnfLpd2fyfmYBWXw55uDME7feHdJbJooZg/s1600/Antonio_Gramsci.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="768" data-original-width="1024" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBpqxa6vSlV4GCKr_WTDs-vjDKkSBYfJcWiW8pmmbhfTLCd3B0Y7oL5sirsWgE68SYxmFQVfuuK9f2wvl11vavaHFgfXPgsrwxUgDyJpdlzmnfLpd2fyfmYBWXw55uDME7feHdJbJooZg/s1600/Antonio_Gramsci.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Antonio Gramsci</td></tr>
</tbody></table>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
Si deve ad <span style="background-color: #ffe599;">Antonio Labriola</span> (1843-1904) la prima diffusione del pensiero di Marx e l’avvio di una vera e propria corrente filosofica marxista nel nostro paese. Formatosi sull’idealismo napoletano ed avvicinatosi in seguito all’herbartismo, Labriola è approdato al marxismo dopo un viaggio in Germania. In un clima culturale caratterizzato dalla presenza del positivismo e del darwinismo, Labriola precisa preliminarmente che il materialismo marxista non riduce affatto l’uomo alla natura, affermando al contrario la libertà (non illimitata, ma reale) dell’uomo che attraverso il lavoro costruisce la realtà storica, che è altro dalla natura. Esso, afferma introducendo una formula che sarà ripresa da Gramsci, è una <span style="background-color: #ffe599;">“filosofia della praxis”</span>, centrata sull’operare dell’uomo che agisce sulla natura per trasformarla. Se questa azione è in primo luogo economica, è errato però dedurne che il marxismo sia un economicismo volgare e riduca tutto al fattore della produzione: se si vuole comprendere la realtà storica dell’uomo non è possibile ignorare tutti gli aspetti sovrastrutturali, né d’altra parte è sempre facile individuare i rapporti tra struttura e sovrastruttura. Non esiste alcuna derivazione meccanica delle espressioni culturali dai rapporti di produzione. Scrive Labriola in <em>Del materialismo storico</em> (1896):<br />
<a name='more'></a><br /></div>
<blockquote class="tr_bq">
<span style="text-align: justify;">La sottostante struttura economica, che determina tutto il resto, non è un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori, a guisa d’immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni, e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie. Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato, spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile. </span> </blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<br />
Lo studio scientifico della storia non mancherà di considerare l’aspetto economico, ma eviterà ogni riduzionismo, consapevole della complessità della realtà umana.
Se si distacca dal positivismo e dal materialismo naturalistico, la filosofia della praxis si distacca ancora più nettamente da qualsiasi forma di idealismo, che perde completamente di vista le reali dinamiche storiche, facendo discendere la concretezza della realtà storica da un elemento ideale. “Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico”, scrive Labriola in una delle lettere a George Sorel (teorico del sindacalismo rivoluzionario) raccolte nel volume <em style="text-align: justify;">Discorrendo di socialismo e di filosofi</em><span style="text-align: justify;"><i>a </i>(1898). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
Ed è dal neo-idealismo che verrà l’opposizione più forte al marxismo italiano. <span style="background-color: #ffe599;">Benedetto Croce</span> si era avvicinato in gioventù al marxismo proprio grazie alla mediazione di Labriola, di cui aveva seguito le lezioni all’Università di Roma. Ma quella marxista fu solo una fase (ed anche breve) del suo pensiero, culminata nella pubblicazione di <em>Materialismo storico ed economia marxistica</em> (1900), una raccolta di articoli sul marxismo pubblicando la quale Croce si dichiarava già oltre il marxismo. Il suo approccio al marxismo era, del resto, puramente intellettuale, alieno da qualsiasi preoccupazione politica per il riscatto del proletariato (“...tu mi dai l’aria di un epicureo che mediti su le forme del pensiero, ignaro della vita”, gli scriverà Labriola in una lettera del 1898; e Croce replicherà: “Lasciatemi fare, dunque, il letterato: almeno per ora che non trovo di meglio da fare”). </div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
Dopo aver negato al marxismo ogni valore sia come teoria filosofica compiuta che come scienza economica, Croce afferma in quei saggi giovanili che esso è nulla più che un “semplice canone d’interpretazione storica” che invita a fare attenzione agli elementi economici per la comprensione dei fatti storici e sociali. In seguito, il giudizio negativo si estenderà dal marxismo al comunismo storicamente realizzato in Russia. In un saggio del 1938 (<em style="text-align: justify;">Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia</em><span style="text-align: justify;">), rievocando gli ideali politici di Labriola, il suo sogno di una società in cui non esistono classi né impedimenti al libero sviluppo di ognuno, commenta che si tratta di “immaginazioni” che si leggono con un “sorriso amaro” “quando si ha inanzi agli occhi, nel paese in cui il comunismo marxistico ha fatto le sue prove, il più pesante stato che la storia mai ricordi, totalitario, cioè invadente tutte quelle forme della vita sulle quali lo stato non ha diritto alcuno, e reggentesi con l’applicazione quotidiana della più sbrigativa delle pene, quella di morte, inflitta indifferentemente a non comunisti, a comunisti e ad ultracomunisti”. </span></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
Quanto a <span style="background-color: #ffe599;">Giovanni Gentile</span>, la sua critica del marxismo è condensata in un’opera del 1899, <em>La filosofia di Marx</em>. A differenza di Croce, Gentile afferma che il marxismo è una vera filosofia della storia, anche se non originale, poiché riprende la filosofia della storia hegeliana con la semplice sostituzione dell’Idea con la materia. Una operazione che, però, conduce ad una contraddizione insanabile: il materialismo di Marx è storico, ma in quanto tale non è più materialismo, poiché la storia è spirito. Gentile riconosce i meriti della concezione marxista di prassi, che supera i limiti del materialismo tradizionale: la realtà esterna non è più un semplice dato, ma il prodotto dell’azione umana, la costruzione del soggetto. ma Marx non si è reso conto, per Gentile, che questo vuol dire appunto affermare il primato dello spirito sulla materia, che è esattamente quello che fa l’idealismo. Il marxismo non è che un “deviamento dell’hegelismo” consistente nel mettere la materia al posto dello spirito, confondendo il piano del relativo con quello dell’assoluto.
La discussione non resterà per molto sul piano filosofico. Con la presa del potere da parte del fascismo, le forze politiche che si richiamano al fascismo (il Partito Socialista prima e il Partito Comunista poi) verranno progressivamente perseguitati, mentre Giovanni Gentile diventerà uno dei principali rappresentanti del Regime, occupando anche il ministero della Pubblica Istruzione e dando il suo nome alla riforma della scuola, che Mussolini considerava “la più fascista delle riforma”.<span style="text-align: left;"></span></div>
</div>
<div style="text-align: left;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
<strong>La vita e le opere</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong><br /></strong></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
Antonio Gramsci è nato ad Ales, in Sardegna, quarto dei sette figli di un impiegato del registro. Per sostenere la famiglia comincia a lavorare all’età di undici anni presso l’ufficio del catasto. Nelle <em>Lettere dal carcere</em>, rievocando quel periodo, ricorderà: “<span style="background-color: #ffe599;">Ho incominciato a lavorare da quando avevo undici anni, guadagnando nove lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per dieci ore di lavoro al giorno compresa la domenica</span> e me la passavo a muovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto sempre l’aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male”. La sua costituzione fisica era fragilissima: a causa di una caduta all’età di quattro anni aveva subito una grave deformazione della spina dorsale.</div>
<div style="text-align: justify;">
Dopo aver frequentato il liceo a Cagliari grazie ad una borsa di studio si trasferisce a Torino per frequentare l’università. Si iscrive a Lettere e approfondisce in particolare gli studi di glottologia, ma soprattutto perfeziona la propria formazione politica socialista, a contatto con la realtà operaia della città della Fiat, entrando anche nella redazione piemontese dell’<em>Avanti!</em>, il giornale del Partito Socialista. Nel 1919 fonda insieme a Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini <em style="background-color: #ffe599;">L’Ordine Nuovo</em>, settimanale che, dopo la Rivoluzione russa, cercava di portare il socialismo italiano su posizioni più apertamente rivoluzionarie.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel gennaio del 1921 è tra i fondatori, a Livorno, del Partito Comunista; nel maggio dello stesso anno va a Mosca quale rappresentante del Partito Comunista presso l’Internazionale Comunista. In Russia conosce la violinista Giulia Schucht, che sposerà nel 1923 e da cui avrà due figli. Nel 1924 fonda <em style="background-color: #ffe599;">L’Unità</em>, quotidiano del Partito Comunista e viene eletto al Parlamento.
Intanto il Regime fascista procede alla liquidazione di qualsiasi forma di opposizione, sciogliendo tutti i partiti e chiudendo tutti i giornali antifascisti. Gramsci viene arrestato nel 1926 con i principali dirigenti comunisti. Durante il processo il pubblico ministero dichiara: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Una richiesta che viene accolta dal tribunale, che condanna Gramsci a venti anni di carcere, che sconterà presso il carcare di Turi, in provincia di Bari.</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Il suo cervello però non smette di funzionare: appena ottiene il necessario per scrivere, nonostante le terribili condizioni di vita comincia la stesura dei <em style="background-color: #ffe599;">Quaderni del carcere</em>, che verranno pubblicati in sei volumi dopo la fine del fascismo. Gli anni del carcere, resi ancora più tormentosi dalle difficilissime condizioni di salute, furono allietati appena dal rapporto epistolare con la madre, i figli e la cognata Tatiana (meno frequente quello con la moglie, affetta da depressione). A causa delle condizioni di salute nel 1933 venne trasferito in una clinica di Formia e poi di Roma, ma soltanto nel 1937 gli venne restituita la libertà. Morì pochi giorni dopo per emorragia cerebrale.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<strong>L’egemonia e il ruolo dell’intellettuale</strong><br />
<strong><br /></strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
Concetto chiave per intendere il pensiero di Gramsci, che ha un carattere tutt’altro che sistematico, è quello di <span style="background-color: #ffe599;">egemonia</span>. L’analisi marxiana della società ha messo in luce le distinzioni in classi in base al possesso dei mezzi di produzione. Come sappiamo, la classe borghese esercita un dominio su quella proletaria non soltanto attraverso la forza e le istituzioni, ma anche attraverso l’ideologia. E’ da qui che parte Gramsci per elaborare il concetto di egemonia. Perché le classi subalterne non si ribellano? Perché accettano di essere dominare? Perché, soprattutto nelle società complesse, le classi dirigenti riescono ad esercitare una forma di “direzione intellettuale e morale” nei confronti dell’intera società e ad ottenere pacificamente il consenso delle classi dominate, modellandone il gusto, formandone la cultura, le abitudini, la visione del mondo attraverso una serie di apparati (la scuola, la chiesa, la stampa eccetera). Le classi sottoposte hanno interessi economici che le pongono in conflitto con la classe dominante, ma al tempo stesso sono legate culturalmente ad essa. Quegli elementi che Marx considerava sovrastrutturali ora vengono in primo piano e diventano fondamentali dal punto di vista strategico. <span style="background-color: #ffe599;">Più che con la violenza la rivoluzione dovrà avvenire attraverso un cambiamento culturale che porti le classi dominate a liberarsi da ogni soggezione culturale</span> ed a diventare a loro volta egemoni. In primo piano vengono gli aspetti sovrastrutturali della cultura e dell’educazione, e fondamentale diventa la figura dell’intellettuale, colui che produce e diffonde la cultura, sia come figura al servizio del dominio borghese che come avanguardia rivoluzionaria.</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
E’ grazie all’<span style="background-color: #ffe599;">intellettuale</span> che la classe dominante riesce ad esercitare un ruolo di guida ed indirizzo sulle altre classi sociali, ma è ancora grazie a lui che le classi sottoposte possono liberarsi dall’oppressione e diventare a loro volta egemoni. Affinché l’intellettuale possa adempiere questo compito rivoluzionario, occorre però che sia organico, vale a dire che si consideri parte della classe sociale degli oppressi. In realtà, nota acutamente Gramsci, ogni essere umano è un intellettuale, dal momento che “non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale” e che ognuno, anche al di fuori del lavoro, ha una sua visione del mondo. Ciò non toglie che l’intellettuale abbia un suo compito specifico. “Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale - scrive in <em>Per la storia degli intellettuali</em> (1932), incluso nel terzo volume dei<em> Quaderni del carcere</em> (quaderno 12) - consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo.”</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="background-color: #ffe599;">L’intellettuale organico non si pone al di sopra dell’operaio.</span> Il suo compito storico è, invece, quello di ripensare la separazione tra homo faber e homo sapiens, tra lavoratore ed intellettuale, gettando le basi per una nuova visione del mondo che metta al centro il lavoro. Se l’intellettuale borghese si caratterizza in primo luogo per l’eloquenza, il nuovo intellettuale dovrà invece “mescolarsi nella vita pratica” ed essere “costruttore, organizzatore”, ‘persuasore permanentemente’, purché non puro oratore”: ha, cioè, compiti che sono al tempo stesso politici ed educativi. E funzione educativa ha anche il partito, che per Gramsci è l’organismo indispensabile che consente alla volontà collettiva del proletariato di concretizzarsi e di perseguire i propri scopi politici.
La teoria dell’egemonia permette a Gramsci di giungere ad una visione complessa e per molti versi ancora attuale della lotta politica. Al paradigma classico della rivoluzione come attacco al centro del potere sostituisce quello della guerra di posizione. La società è il campo sul quale si combatte: la classe che diventa egemone, e che dunque va al potere, è quella che riesce a conquistare più posizioni ed a controllare il tessuto sociale e la vita culturale.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<strong>La scuola</strong><br />
<strong><br /></strong></div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
Da quanto si è detto è chiara l’importanza dell’educazione nella prospettiva rivoluzionaria di Gramsci. Makarenko si è trovato di fronte al problema di elaborare una pedagogia socialista in grado di formare l’uomo nuovo corrispondente al nuovo ordine sociale inaugurato dalla Rivoluzione comunista. Il problema di Gramsci è un altro: pensare l’educazione come strumento rivoluzionario, come mezzo per arrivare a rovesciare l’assetto politico e sociale.
Makarenko e Gramsci condividono il rifiuto di ogni spontaneismo.</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="background-color: #ffe599;">Per Gramsci lo studio richiede impegno e fatica esattamente come il lavoro fisico.</span> Scrive ancora in <i>Per la storia degli intellettuali</i>: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”. Se un ragazzino proveniente da una famiglia con tradizioni intellettuali riesce ad adattarsi alle difficoltà dello studio, l’impresa riesce particolarmente difficile per il figlio dell’operaio, che non vi è abituato (esattamente come il primo avrebbe grandi difficoltà ad entrare in fabbrica). Man mano che aumenta la partecipazione delle masse popolari alla scuola media, si avanza l’esigenza di rendere lo studio meno difficile. E’ per Gramsci una tendenza cui bisogna resistere, se si vuole salvaguardare la serietà e il rigore dello studio.</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="background-color: #ffe599;">La Riforma Gentile per Gramsci ha accelerato la decadenza della scuola italiana.</span> La vecchia scuola era espressione di una cultura umanistica e di un ideale di vita intellettuale che erano diffusi in tutta la società e costituivano l’identità nazionale. Il tramonto di questo clima culturale ha trascinato con sé la scuola, che è entrata in crisi, distaccandosi sempre più dalla vita. La Riforma fascista non solo non è riuscita a porre rimedio a questa crisi, ma la ha accelerata. Per Gramsci lo stesso nozionismo della scuola pre-gentiliana era positivo, poiché offriva comunque allo studente un bagaglio di base sul quale costruire poi una visione culturale più matura. Perfino il metodo meccanico con cui si insegnavano il greco ed il latino aveva i suoi lati positivi, poiché formava alla disciplina intellettuale. La scuola gentiliana sostituisce (o pretende di sostituire) alle nozioni il pensiero critico; il che vuol dire, per Gramsci, che “l’allievo trascura le nozioni concrete e si ‘riempie la testa’ di formule e parole che per lui non hanno senso, il più delle volte, e che vengono subito dimenticate”.</div>
<div style="text-align: justify;">
Gramsci coglie perfettamente il carattere classista della scuola gentiliana, che moltiplica le scuole professionali per i proletari offrendo ai borghesi il percorso liceale, da cui uscirà la classe dirigente. “L’aspetto più paradossale - scrive - è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi”.
Autenticamente democratica per Gramsci è una scuola unitaria “che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige”. Gramsci pensa ad un primo grado elementare di tre-quattro anni, seguito da un ginnasio di quattro anni ed un liceo di due anni. Riguardo al metodo, vi sarà una evoluzione dal metodo delle elementari, necessariamente dogmatico, a quello del liceo, che dovrà evitare la mera trasmissione di nozioni e favorire un studio creativo ed autonomo. Il che non vuol dire, precisa Gramsci, che lo studente dovrà scoprire da solo cose nuove, ma che dovrà essere centrale l’iniziativa dello studente e l’insegnante, cessando di dirigerlo dall’esterno, eserciterà una funzione prevalentemente “di controllo e di guida amorevole”. Se l’insegnamento tradizionale avviene nell’aula, la scuola creativa si fa soprattutto nei laboratori e nelle biblioteche ed avrà natura prevalentemente seminariale
</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-84138159678789340392017-06-27T16:49:00.001+02:002023-04-09T08:19:24.430+02:00Due film su Jung e Sabrina Spilrein<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlJAZ4Wjcow_MyVbDCw4GKUXGgc4Hw7dMu8zjhyIHz8vIlmsV_TTkrR3kka02MKuc-xzdHUBViAG4b6brFl0IQ_Z_5Ee9MpxUpB8VCw4yHOq7iwcHEGkC6S2tL9_sMVakmEtKmHc2_LhU/s1600/dangerous_method.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="461" data-original-width="932" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlJAZ4Wjcow_MyVbDCw4GKUXGgc4Hw7dMu8zjhyIHz8vIlmsV_TTkrR3kka02MKuc-xzdHUBViAG4b6brFl0IQ_Z_5Ee9MpxUpB8VCw4yHOq7iwcHEGkC6S2tL9_sMVakmEtKmHc2_LhU/s1600/dangerous_method.jpg" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
Agli inizi del Novecento Jung lavorava presso la clinica psichiatrica Burghölzi di Zurigo. Qui fu ricoverata una giovane ebrea russa, Sabina Spielrein, affetta da diversi disturbi riconducibili all'isteria. Jung la curò utilizzando il metodo psicoanalitico, ottenendo un notevole successo, ma intrecciò con lei una tempestosa relazione sentimentale. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: left;">
La vicenda è raccontata in due film di successo: <i>Prendimi l'anima</i> di Roberto Faenza (2003) e<i> A Dangerous Method</i> di Davin Cronenberg (2011). Il film di Faenza è ispirato alla pubblicazione delle lettere di Sabina Spielrein a Jung, scoperte e pubblicate dallo psicanalista italiano Aldo Carotenuto nel libro <i>Diario di una segreta simmetria</i> (Astrolabio Ubaldini). Il film di Faenza si sofferma anche sulla infelice sorte dell'ebrea Spilrein. Dopo la guarigione, aveva ripreso gli studi e si era laureata in medicina, entrando nel movimento psicoanalitico ed occupandosi soprattutto di educazione. Tornata in Russia nel 1923, fu uccisa dai nazisti insieme alle due figlie nel 1942. Particolarmente toccante, nel film di Faenza, è la testimonianza di un ex allievo ottuagenario della psicoanalista. Il film di Cronenberg dedica invece spazio al rapporto tra Jung e Freud, ed alla rottura intervenuta tra i due.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><span style="font-family: courier;">A Dangerous Method</span></i></div>
<div style="text-align: justify;"><span style="font-family: courier;">
Regia: David Cronenberg</span></div><span style="font-family: courier;">
Produzione: Francia, Regno Unito, Canada, Germania, Svizzera<br />
Anno: 2011<br />
Durata: 99 min
<br />
<i>Interpreti principali</i><br />
Michael Fassbender: Carl Gustav Jung<br />
Keira Knightley: Sabina Spielrein<br />
Viggo Mortensen: Sigmund Freud<br />
Vincent Cassel: Otto Gross<br />
Sarah Gadon: Emma Jung<br />
<br />
<i>Prendimi l'anima</i><br />
Regia: Roberto Faenza<br />
Produzione: Italia, Francia, Regno Unito<br />
Anno: 2002<br />
Durata: 88 min<br />
<i>Interpreti principali</i><br />
Emilia Fox: Sabina Spielrein<br />
Iain Glen: Carl Gustav Jung<br />
Jane Alexander: Emma Jung</span><br />
<br />
<br />
<br />Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-78489833320905029302017-06-24T09:39:00.000+02:002020-03-24T21:58:19.415+01:00Maria Boschetti Alberti<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9Uh3fR3ThDbMUwujohwe2bVtG4o9lysyV4TFkRXLb17943y8Ho94VsduknwrjEloSL6A3MLYazDUAjDhRBZ47BUZ9Lq3E2o2r4jxJZOvsImk8MfeSOBjgQXwXmoIV-kZ66ASdlGwXxNk/s1600/muzzano.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="326" data-original-width="490" height="212" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9Uh3fR3ThDbMUwujohwe2bVtG4o9lysyV4TFkRXLb17943y8Ho94VsduknwrjEloSL6A3MLYazDUAjDhRBZ47BUZ9Lq3E2o2r4jxJZOvsImk8MfeSOBjgQXwXmoIV-kZ66ASdlGwXxNk/s320/muzzano.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La classe di Maria Boschetti Alberti a Muzzano</td></tr>
</tbody></table>
<div style="text-align: justify;">
Nata a Montevideo in Uruguay da una famiglia di emigrati svizzeri e formatasi alla Scuola Normale di Locarno, Maria Boschetti Alberti (1884-1951) ha cominciato giovanissima, a quindici anni, la sua carriera di maestra itinerante in alcuni paesini svizzeri. L’inizio non è dei migliori: insegna secondo l’uso corrente, ma ciò la annoia e ne spegne ogni entusiasmo. La scuola le sembra rigida, fredda, un luogo privo di gioia e di reale contatto umano. Scriverà nel <i>Diario di Muzzano</i> (1939), la sua opera principale: “In quei tempi – fino al 1916 – non avevo amore per i miei scolari. Eravamo anzi nemici. Io, da una parte, sulla cattedra, ritta, severa come una divinità antica: loro, dall’altra, separati da me da un muro di ghiaccio. Non potendo amare i miei alunni, non amavo neanche la scuola”. Decisa a reagire a questo stato di cose, intraprende del 1916 un viaggio in Italia, al fine di conoscere le innovazioni pedagogiche del nostro paese e trarne ispirazione. A Milano e Roma visita scuole per bambini anormali, ma è soprattutto il metodo Montessori a richiamare la sua attenzione. A Milano visita l’Umanitaria, una scuola per poveri retta secondo il metodo montessoriano, e ne viene fortemente colpita.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nominata maestra a Muzzano (presso Lugano), nel 1917, comincia subito la sua sperimentazione educativa, provando ad adattare il metodo montessoriano alla scuola pubblica. Le sue innovazioni suscitano nell’ambiente del paese una ostilità che sfocia in una indagine richiesta dai genitori degli alunni, in base alla quale le vengono contestate una serie di mancanze di carattere formale e burocratico. si trasferisce quindi ad Agno, dove ha modo di sviluppare le proprie sperimentazioni educative rendendosi progressivamente autonoma dal metodo Montessori e dando vita a quella che, con un termine di Lombardo Radice, chiamerà scuola serena, che presto suscita interesse e consensi di alcuni autorevoli esponenti del mondo pedagogico, tra i quali Adolphe Ferrière.</div>
<div style="text-align: justify;">
Tra le sue opere, oltre al citato <i>Diario di Muzzano</i>: <i>La disciplina nella libertà</i> (1927), <i>La scuola serena di Agno</i> (1928), <i>Ricordi della scuola di Agno</i> (1938).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<br />
<b>La scuola serena</b><br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
Tra le cose che Boschetti Alberti aveva ammirato maggiormente all’Umanitaria c’era la serenità, l’ordine, il piacere spontaneo con il quale i ragazzi si dedicavano al lavoro scolastico, così apertamente in contrapposizione con la noia ed il malessere che aveva sperimentato nella sua scuola. Come fare per introdurre anche nella scuola pubblica questo clima sereno e positivo? Boschetti Alberti cominciò, a Muzzano, con alcune innovazioni ispirate al metodo Montessori. La vita scolastica cerca di armonizzare le esigenze del singolo e della comunità. Di qui <span style="background-color: #fff2cc;">i due principi fondamentali dell’ordine, che è rispetto della vita comune, e della libertà, che è la salvaguardia dei bisogni individuali</span>. Per favorire l’apprendimento vengono introdotti dei materiali ispirati a quelli montessoriani, anche se meno raffinati ed autoprodotti, ma le innovazioni più importanti sono con ogni probabilità quelle che riguardano la relazione tra la maestra e gli studenti. Con grande cura e sensibilità Boschetti Alberti cerca di creare degli <span style="background-color: #fff2cc;">spazi di confronto e di espressione</span>, dedicando del tempo alla libera conversazione con gli studenti – per lo più figli di contadini – e mettendo a loro disposizione un quaderno sul quale potranno annotare tutto ciò che vorranno. </div>
<div style="text-align: justify;">
I risultati furono negativi, giudicati con i parametri della scuola di allora: e di qui le ostilità di cui s’è detto. Ma Boschetti Alberti operava ad un livello più profondo: risvegliare negli studenti un amore reale per il sapere, rispettarne l’identità culturale e la differenza, dar loro la parola. </div>
<div style="text-align: justify;">
Ad Agno il suo metodo si fa più consapevole. Il senso della scuola le si chiarisce come segue: “far passare alcune ore del giorno in un ambiente di calma a questi poveri ragazzi che vivono fra persone affaticate e stanche in un ambiente nervoso; far conoscere il bello, inebriare del bello questi poveri tipi che hanno tanto di lurido e di squallido intorno a loro; far respirare in un ambiente di educazione e di finezza queste povere anime che già conoscono parecchie, troppe brutture della vita e che di educazione e di finezza non hanno alcuna idea”. Viene in primo piano, nella riflessione di Boschetti Alberti, il tema della <span style="background-color: #fff2cc;">qualità della vita scolastica</span>, che in genere viene sacrificato al risultato, al sistema di apprendimenti che si chiede alla scuola di far raggiungere agli studenti. La scuola non è vera scuola se non vi si sta bene; e non educa, ossia non fa crescere nella verità e nella bellezza, se non v’è il massimo rispetto della individualità degli alunni. L’autoritarismo, la freddezza nei rapporti umani, le punizioni ed i ricatti, che così tristemente caratterizzano spesso la scuola, sono incompatibili con qualsiasi autentica educazione.</div>
<div style="text-align: justify;">
La scuola serena esige anche un setting adeguato. Quello tradizionale (i banchi e la cattedra) è pensato in base ad esigenze non educative, ma di controllo. Che fare? In una scuola privata sperimentale si possono ripensare gli spazi; nella scuola pubblica basta mettere i banchi lungo le pareti e liberare lo spazio, come Boschetti Alberti fece. La giornata scolastica ad Agno comincia con la preghiera, cui segue <span style="background-color: #fff2cc;">l’accademia, un’ora dedicata al bello ed al bene affidata interamente alla creatività degli studenti</span>. Durante quest’ora potevano leggere una poesia, mostrare un disegno, allestire insieme una rappresentazione teatrale, curando anche l’aspetto dell’aula. E’ la scuola libera da ogni impaccio burocratico, pura espressione; ed è, anche, l’educazione etica ed estetica sfondata da ogni moralismo e da ogni passiva trasmissione di valori e regole morali. I bambini si appassionano spontaneamente al bello, perfezionano il gusto, riflettono sul bene attraverso le storie, entrano con leggerezza nel mondo dei valori. Il problema di conciliare la necessità di seguire un programma ministeriale con il bisogno di rispettare i ritmi e la libertà di apprendimento di ciascuno studente è risolto da Boschetti Alberti redigendo un programma per ogni disciplina, con una sreie di temi tra i quali lo studente poteva scegliere quelli più vicini ai suoi interessi. I progressi compiuti venivano verificati durante il controllo del lavoro, che seguiva l’accademia. Non si trattava di un controllo dei compiti svolti, ma del necessario intervento di indirizzo e di sostegno al lavoro autonomo. Lo studente è il protagonista del suo apprendimento; ma la maestra gli dà suggerimenti, gli indica gli errori, lo incoraggia e stimola interessi ulteriori. Lo studente apprende realmente, se parte da propri interessi; e può partire dai propri interessi solo se viene lasciato libero. E’ su questa intuizione che si basa tutto il lavoro della scuola di Agno. Dopo il controllo del lavoro è il momento della lettura da parte della maestra, cui seguiva il lavoro libero. Boschetti Alberti distingue due aspetti della libertà del lavoro scolastico: la libertà di modo e la libertà di tempo. La prima è la libertà di lavorare secondo il metodo preferito, senza alcuna necessità di uniformità. Gli studenti possono lavorare da soli o in gruppo, usare il quaderno o la lavagna, e così via. La libertà di tempo è la possibilità di seguire i propri personali tempi di apprendimento, scegliendo quanto tempo dedicare ad un argomento o ad un esercizio. Nel pomeriggio le lezioni continuano con <span style="background-color: #fff2cc;">la conferenza di uno studente a turno su un argomento specifico</span>. La disciplina della conferenza è fissa (ogni giorno è dedicato interamente ad una delle tredici materie di studio), ma anche in questo caso lo studente ha la libertà di scegliere quale argomento trattare all’interno di quella disciplina. La giornata scolastica si conclude con una nuova sessione di lavoro libero.</div>
<div style="text-align: justify;">
Come si vede, si tratta di una scuola che ha al centro lo studente, con i suoi bisogni ed interessi, secondo la grande lezione dell’attivismo. La scuola pubblica viene liberata dall’interno, per così dire, con un’azione che mostra la possibilità di aprire le istituzioni anche quando esse paiono ormai sclerotizzate, di introdurre in esse il soffio dell’innovazione e la possibilità della gioia.</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-68188071021004652692017-06-24T09:30:00.000+02:002020-04-03T08:47:04.162+02:00Giuseppina Pizzigoni<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicEwMrOifaLMOMCb50PrcibLRRpX6YsCz6XzMKA7oAQCDstMfyvuTFk3lO8Y9MWFe35qNFlm5q2c4UX5mylESIyVlLYT-B_HQm3D_3vCwfxjtiqUyfAiGLAEOqGyZw9I-k-P5vJs-WHv8/s1600/pizzigoni.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="451" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicEwMrOifaLMOMCb50PrcibLRRpX6YsCz6XzMKA7oAQCDstMfyvuTFk3lO8Y9MWFe35qNFlm5q2c4UX5mylESIyVlLYT-B_HQm3D_3vCwfxjtiqUyfAiGLAEOqGyZw9I-k-P5vJs-WHv8/s320/pizzigoni.jpg" width="240" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Giuseppina Pizzigoni</td></tr>
</tbody></table>
<div style="text-align: justify;">
Giuseppina Pizzigoni (1870-1947) è nata a Milano. Conseguito a diciotto anni il diploma di maestra, vince un concorso pubblico e inizia a lavorare come maestra. Dopo diverse esperienze didattiche, che vedono il suo entusiasmo educativo scontrarsi con la noia della routine delle scuole pubbliche, matura l’idea di una scuola nuova, in cui l’insegnamento sia basato sull’esperienza. “Avevo idea chiara e volontà forte, – scrive – ma non potevo pensare di rinunciare al mio posto in Comune per dedicarmi al mio ideale. Sapevo anche che, se mi fossi presentata ai miei superiori, dicendo il mio sogno di capovolgere il metodo in uso nelle scuole elementari, mi sarei molto probabilmente sentita rispondere: ‘Faccia il suo dovere e non sogni tanto! Stia, stia quieta per carità!’.Troppo ardito appariva allora il mio sogno! Pensai che saggio era presentarsi alle Autorità scolastiche, agguerrita di appoggi sicuri e di fondi. Fra i miei amici (ne avevo allora meno di oggi, ma allora avevo anche meno nemici) riuscii a formare un Comitato promotore per l’attuazione del mio sogno didattico; ed ebbi subito con me personalità non dubbie e uomini di fede e di scienza...”. Grazie a questi sostenitori, tra i quali un ministro e diversi scienziati, riesce a fondare nel 1911, nel quartiere popolare della Ghisolfa a Milano, la scuola sperimentale Rinnovata, che comincia con due sole sezioni e 64 studenti e cresce progressivamente, fino a quando si rende necessaria la costruzione di un nuovo edificio. Quest’ultimo, progettato secondo le precise indicazioni pedagogiche di Pizzigoni, viene inaugurato nel 1927 ed è ancora oggi la sede della scuola. Lo stesso anno nasce l’Opera Pizzigoni, con il compito di promuovere la diffusione del suo metodo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Tra gli scritti di Pizzigoni: <i>La scuola elementare rinnovata secondo il metodo sperimentale</i> (1914); <i>Linee fondamentali e programmi della scuola elementare rinnovata secondo il metodo sperimentale </i>(1922); <i>Le mie lezioni ai maestri delle scuole elementari d’Italia</i> (1931).</div>
<a name='more'></a><br />
<br />
<b>La Rinnovata</b><br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
La scuola di Pizzigoni nasce da alcune intuizioni pedagogiche supportate da uno sguardo attento alle innovazioni educative nelle diverse parti del mondo. Maestra nella scuola pubblica, ha parole molto dure per il suo verbalismo, l’inerzia, la scarsa salubrità dell’ambiente stesso, che non è adatto a formare persone in salute. Non c’è da meravigliarsi se i bambini cercano di fuggire da scuola: “Il bambino che vorrebbe per ogni nonnulla marinare la scuola, quello che ci va piangendo, quello che progredisce in pallore o che si fa miope o nervoso, si ribellano attivamente o passivamente a uno stato di cose incompatibile con la loro natura, ma nello stesso tempo ci ammoniscono”. La scuola è un ambiente insano perché costringe all’immobilità e ad una disciplina militare che confligge con il bisogno di libertà, e non consente una esperienza concreta del mondo ed una vera vita sociale.<span style="background-color: #fff2cc;"> Alla base dell’idea sperimentale della Rinnovata c’è l’esigenza di tutelare la salute dei bambini, offrendo un ambiente igienico e salubre, ma soprattutto favorendo la vita all’aperto ed il contatto con la natura. </span>Gli ampi spazi all’aperto che fanno parte della struttura della Rinnovata sono parte integrante della scuola e costituiscono una risorsa educativa fondamentale. Le uscite in giardino servono per osservare da vicino quella natura che nella scuola tradizionale si studia sui libri; ma anche la vita sociale va osservata e studiata, ed a questo servono le uscite in città. </div>
<div style="text-align: justify;">
La Rinnovata adotta quello che poi si chiamerà tempo pieno, protraendo le attività scolastiche fino alle sei del pomeriggio ed eliminando sia il doposcuola che i compiti a casa. In questo modo sarà permesso anche ai figli dei poveri fare, a scuola, quelle attività che i figli dei ricchi fanno fuori dalla scuola. </div>
<div style="text-align: justify;">
Motivato da preoccupazioni igieniche e salutiste è anche il <span style="background-color: #fff2cc;">rifiuto di ogni precocizzazione nell’apprendimento del leggere e dello scrivere</span>. Pur dichiarando di condividere l’impostazione pedagogica di Maria Montessori (al punto di sostenere che i piccoli studenti provenienti dalle Case dei bambini montessoriane potranno continuare utilmente la loro educazione nella Rinnovata), Pizzigoni è nettamente in disaccordo su questo punto. “Io trovo nelle statistiche che il difetto della miopia ha una frequenza del 3, del 5% avanti l’ingresso nella scuola, e diventa oltre il 20% durante la scuola. L’occhio del bambino, che è di regola ipermetropico, per lo sforzo di accomodamento si avvia alla miopia. C’è tanto da fare, a mio parere, senza preoccuparsi del meccanismo del leggere e dello scrivere!”. Il bambino imparerà a leggere quando sarà il momento opportuno, senza alcuna forzatura, con la consapevolezza che nel frattempo potrà imparare molte altre cose.</div>
<div style="text-align: justify;">
Alle lezioni verbali nella Rinnovata si sostituiscono le <span style="background-color: #fff2cc;">lezioni basate sull’osservazione e sull’esperiemento</span>. Ecco come Pizzigoni descrive una di queste lezioni: “Devo parlare in 5a classe della pressione atmosferica che si esercita in ogni senso. Perché mi appoggerò tutta alla fede che gli scolari hanno in me? Ecco invece una latta vuota in cui ho versato un mezzo bicchier d’acqua; la metto sopra una fiamma a spirito. Gli scolari si rendono conto del vapore che esce dall’apertura superiore della latta; capiscono che, dopo qualche tempo, l’acqua se ne è andata quasi tutta in vapore, scacciando l’aria dall’interno del recipiente. Ora la latta è piena di vapor acqueo. Chiudo l’apertura, tolgo la latta dal fuoco e spengo la fiamma. I ragazzi sono tutt’occhi.... Pum! pim! pam!... La latta cede a destra, a sinistra, di su, di giù si storta, si piega, si contorce con movimenti inaspettati e rapidi.... L’attenzione e l’allegria sono al colmo; e tutti a una voce gridano: ‘E’ la pressione dell’aria!’”. E’, senza dubbio, il racconto di una leziona alternativa, in grado di tener desta l’attenzione degli studenti. Tuttavia mancano ancora il fare in prima persona degli studenti, l’esperimento e l’osservazione diretta; la maestra resta una mediatrice indispensabile tra gli studenti e gli oggetti da conoscere. Va però considerata, riguardo al “fare”, l’importanza che nella Rinnovata ha il lavoro, che è tra i suoi aspetti più innovativi ed interessanti. Lavoro che sarà diverso a seconda dei sessi, anche se alla Rinnovata vige la coeducazione di ragazzi e ragazze: i maschi si dedicheranno al lavoro della terra e della materia (legno, plastilina ecc.), mentre le ragazzine impareranno a cucinare ed a fare i lavori domestici. Se giunge alla intuizione dello stretto legame tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e del valore formativo di quest’ultimo, Giuseppina Pizzigoni non riesce a concepire il lavoro al di fuori degli schemi di genere; e chiederle di più vuol dire forse non tenere in debito conto la situazione storica nella quale si è sviluppata la sua esperienza educativa.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nonostante la sua impostazione sperimentale, la scuola di Pizzigoni non rinuncia all’educazione religiosa, che è naturalmente quella cattolica, anche se ricondotta a quelle massime della morale evengelica che possono essere considerate anche quale base dell’etica civile. Oltre alle lezioni di “morale religiosa” sono previste delle lezioni di catechismo vere e proprie, alle quali però sono dispensati dal partecipare gli studenti non cattolici.</div>
<div>
<br /></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-67493023086237448252017-06-24T09:15:00.000+02:002020-03-24T21:58:30.159+01:00Le sorelle Agazzi<div style="text-align: justify;">
Le sorelle Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi (1870-1945) sono nate a Vologno, in provincia di Cremona, figlie di un artigiano del legno con la passione per la musica. Dopo essersi diplomate entrambe alla Scuola normale di Brescia hanno iniziato ad insegnare nel 1899 nella stessa scuola di Nave, un paese del bresciano: Rosa era insegnante elementare (in una classe con 73 bambini), mentre a Carolina furono affidati circa 125 bambini dell’asilo. Successivamente si sono spostare in diversi asili della zona, ispirandosi al metodo aportiano ed a quello fröbeliano, non mancando di introdurre elementi originali, come la musica al pianoforte. Nel 1895 le due sorelle si ritrovano a lavorare insieme all’asilo della borgata di Mompiano, grazie all’intervento di <span style="background-color: #fff2cc;">Pietro Pasquali</span>, pedagogista fröbeliano e direttore delle scuole elementari di Brescia, che diventerà il principale sostenitore del metodo Agazzi. All’asilo di Mompiano le sorelle metteranno a punto il loro metodo sperimentale, che presto riceverà ampi riconoscimenti ufficiali ed influenzerà anche la politica scolastica dello Stato, pur senza raggiungere la notorietà e la diffusione internazionale del metodo Montessori. Contribuirà allla diffusione del metodo la casa editrice La Scuola, una delle più importanti realtà editoriali italiane nel campo dell’educazione. Carolina Agazzi è autrice di un libro di <i>Consigli alle famiglie</i> (1903), mentre la sorella, più prolifica, ha scritto tra l’altro: <i>La lingua parlata </i>(1910),<i> L’arte delle piccole mani</i> (1927), <i>Guida per le educatrici dell’infanzia</i> (1929) e <i>Conversazioni sulla scuola materna</i> (1950).<br />
<a name='more'></a></div>
<br />
<b>Il metodo</b><br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYoX5wNP20VQgNlUkU-aoo3eG1EWVXz_ZtNnZwzZwNsYyWnlYrtsjSbC4EeedGiUNc0It_QxrwXNshyphenhyphenUQyXXbxI4gvVMy1SjsJwxbmvoRsqy23Igs-rH_-csBvRbkQxYnv4y7f-kBWYP0/s1600/agazzi_contrassegni2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="1231" data-original-width="1104" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYoX5wNP20VQgNlUkU-aoo3eG1EWVXz_ZtNnZwzZwNsYyWnlYrtsjSbC4EeedGiUNc0It_QxrwXNshyphenhyphenUQyXXbxI4gvVMy1SjsJwxbmvoRsqy23Igs-rH_-csBvRbkQxYnv4y7f-kBWYP0/s320/agazzi_contrassegni2.jpg" width="286" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Alcuni contrassegni</td></tr>
</tbody></table>
La formazione e le prime esperienze educative delle sorelle Agazzi avvengono all’insegna del fröbelismo, metodo di cui tuttavia non tardano a cogliere i limiti, soprattutto per come esso si presenta nei suoi continuatori ed epigoni. Intervenendo nel 1898 al congresso pedagogico di Torino (lo stesso cui partecipa Maria Montessori), Rosa Agazzi propone la sua critica al fröbelismo, che è in realtà soprattutto una critica all’applicazione formale e stanca che del metodo fanno le maestre. <span style="background-color: #fff2cc;">Non bisognava rinunciare a Fröbel, ma reinterpretarne lo spirito</span>, sfrondandolo invece dagli elementi più astratti ed intellettualistici, come il misticismo ed un uso rigido del materiale (i doni). Il punto di partenza di questo ripensamento non poteva essere che il bambino: occorreva tornare a considerare la realtà del bambino nella sua autenticità e freschezza e rispettarne soprattutto la libertà. Non più il bambino sottoposto ad infiniti esercizi per modellarne il comportamento, ma il bambino che vive nell’asilo come a casa propria: e la denominazione di scuola materna vuole evidenziare questa continuità. I bambini sono operosi non meno che nelle Case dei bambini montessoriane, ma in questo caso si tratta soprattutto di attività di vita pratica. <span style="background-color: #fff2cc;">I bambini non sono assistiti, ma devono occuparsi loro stessi di tutto ciò di cui ha bisogno la scuola.</span> Da un lato, dunque, devono prendersi cura di sé (lavarsi – cosa cui si riserva una cura particolare – pettinarsi, vestirsi ecc.) ed aiutare i bimbi più piccoli che non sono autonomi, dall’altro devono compiere tutte le attività necessarie alla vita collettiva: andare a prendere l’acqua, lavare le stoviglie, sistemare la provvista della legna, pulire le suppellettili... I bambini sono costantemente all’opera, sotto lo sguardo attento dell’educatrice, che vigila che tutto si svolga in ordine. In queste attività pratiche si incarna l’ideale di una vita operosa e solidale, che è un ideale al tempo stesso etico ed estetico. I bambini apprendono l’importanza e la bellezza dell’ordine e dell’armonia tanto delle cose quanto degli atti, e si aprono alla collaborazione ed al sostegno reciproco. Sanno di avere la responsabilità della casa che abitano; quelli più grandi, di cinque o sei anni, hanno inoltre la responsabilità di insegnare a quelli più piccoli, di tre anni, la cura personale. In un simile ambiente educativo la massima libertà individuale si armonizza così naturalmente con la collaborazione ed il lavoro comune.</div>
<div style="text-align: justify;">
Anche la scuola materna agazziana ha il suo materiale. Non si tratta di materiale scientifico, appositamente preparato, ma proprio degli oggetti di uso comune e collettivo, che i bambini imparano ad usare nelle loro attività quotidiane. Vi sono poi gli oggetti personali, <span style="background-color: #fff2cc;">ognuno dei quali ha un suo contrassegno, una immagine facilmente riconoscibile</span> (oggetti comuni per i più piccoli, forme geometriche per i più grandi), che è segno distintivo di ogni bambino ed indica la sua proprietà dell’oggetto. Attraverso i contrassegni i bambini imparano a riconoscere e rispettare il principio di proprietà, ma non solo. Ogni contrassegno ha un nome, che viene ripetuto più volte. Ascoltando il nome del proprio contrassegno e quello dei contrassegni altrui, il bambino arricchiscono il proprio lessico, associando il nome all’immagine. Si avvia così l’educazione linguistica, che verrà completata con il dialogo vivo con la maestra. In fine, vi sono le cianfrusaglie senza brevetto, cose di nessuna importanza che si trovano normalmente nelle tasche dei bambini: bottoni, pezzi di spago, conchiglie, scatolette, tappi di sughero e così via. Questo materiale eterogeneo e povero dà vita ad un vero museo delle cianfrusaglie ed è la base per una grande varietà di esercizi che permettono l’affinamento della percezione sensoriale e del gusto estetico. I materiali casuali raccolti in una scatola possono ad esempio servire per un esercizio di discriminazione e riconoscimento dei colori, oppure possono essere divisi in base al materiale, o ancora in base alla grandezza. Tutto è affidato alla creatività della maestra e dei bambini, che sapranno trarre di volta in volta le migliori occasioni di esperienza dal materiale disponibile. Ogni attività è accompagnata dal dialogo e dalla discussione. La maestra stimola l’espressione spontanea dei bambini, senza però fermarsi ad essa, ma invitandoli anche a riflettere sulle parole, distinguendo ad esempio le parole di due sillabe da quelle di tre sillabe, o analizzando i diversi accenti. L’espressione linguistica si sublima poi nel canto, che ha una importanza centrale nel metodo agazziano. anche in questo caso, i bambini vengono invitati al canto spontaneo attraverso l’imitazione della maestra, e gradualmente sono indotti a riflettere sulla giusta intonazione ed affinano la propria voce, fino a giungere all’armonia del canto comune.</div>
<div style="text-align: justify;">
Se Montessori, partita da una visione rigorosamente scientista, è approdata con gli anni ad una spiritualità non priva di influenze orientali, <span style="background-color: #fff2cc;">la pedagogia delle sorelle Agazzi si inserisce nella cornice della tradizione cattolica</span>: un dato da considerare, se ci si interroga sulle ragioni del successo del metodo agazziano in quell’Italia fascista che invece ha considerato con sospetto, fino a rifiutarlo come una visione del mondo estranea ed eterodossa, il pensiero montessoriano.</div>
<br />Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-75652384602181184032016-12-12T13:07:00.000+01:002020-04-03T08:47:16.678+02:00Erich Fromm<div style="text-align: justify;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiP5-dLxCBXzJGueL5BSkHt6R_x5dIDST16U9gw7nsop16f8WeODZI2WQKj4aSNmwj0Dl8zaerFVGJgEyAyQcgtvgSh9Fz1mpHb8Ee2qu6-h8aTgm0JVgNlJztgSljGu19MqDEN-wqhQgk/s1600/fromm.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="764" data-original-width="1300" height="188" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiP5-dLxCBXzJGueL5BSkHt6R_x5dIDST16U9gw7nsop16f8WeODZI2WQKj4aSNmwj0Dl8zaerFVGJgEyAyQcgtvgSh9Fz1mpHb8Ee2qu6-h8aTgm0JVgNlJztgSljGu19MqDEN-wqhQgk/s320/fromm.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Erich Fromm</td></tr>
</tbody></table>
Maggiore fortuna, rispetto a quello di Wilhelm Reich, ha incontrato il tentativo di ripensare la psicoanalisi alla
luce del marxismo (e al tempo stesso il marxismo alla luce della
psicoanalisi) operato dalla Scuola di Francoforte. Con queste espressione si
indicano i pensatori legati all'<i>Institut für Sozialforschung</i> (Istituto per la
ricerca sociale), creato nel 1923 a Francoforte e di cui assunse la direzione
nel 1931 il filosofo Max Horkheimer.
Il programma di ricerca della Scuola, precisato dallo stesso Horkheimer,
prevede una analisi della società priva di qualsiasi settorialità, una teoria
critica della società che unisca ricerca empirica e riflessione filosofica.
Compito della teoria critica è quello di mostrare le contraddizioni della
società capitalistica. Gli strumenti per farlo sono, oltre al marxismo (letto
come una forma di umanesimo), il pensiero di Hegel, che conta per la
scoperta della dialettica, e quello di Freud, liberato dalla accusa di essere
una espressione della decadenza della classe borghese e di avere un
carattere irrimediabilmente reazionario.
</div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Come già aveva intuito Reich, la
psicoanalisi è preziosa per smascherare l'azione repressiva della società
borghese sull'individuo, ma solo a condizione che sia essa stessa
smascherata, criticata e liberata da ciò che in essa giustifica ed asseconda la
repressione sociale. La psicoanalisi, osserva Erich Fromm [<a href="https://it.forvo.com/word/erich_fromm/" style="text-align: justify;">pronuncia</a><span style="text-align: justify;">] (tra i maggiori esponenti della Scuola di Francoforte), intende
cambiare le condizioni dell'uomo, ma si limita alle semplici pulsioni sessuali, </span><span style="background-color: #fff2cc; text-align: justify;">tralasciando la realtà sociale e politica</span><span style="text-align: justify;">. “Nei
confronti delle diverse realtà dell'esistenza
dell'individuo e dei fenomeni sociali inconsci, la
maggior parte degli psicoanalisti – e Freud tra questi
– erano e sono non meno ciechi di altri studiosi
appartenenti alla loro stessa classe sociale”, scrive
Fromm. Freud è un borghese, così come sono
borghesi i maggiori rappresentanti della psicoanalisi.
Questo impedisce loro di osservare la società da un
punto di vista critico e di comprendere le cause
sociali dei nostri disturbi individuali. </span>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="background-color: #fff2cc;">Un individuo
sano per Freud e la psicoanalisi è in grado di
“lavorare e godere”</span>. Questa concezione di salute
psichica contiene, in realtà, un preciso ideale umano, che corrisponde
esattamente all'ideale borghese e capitalistico di un uomo che dedica la
propria esistenza al lavoro cercando di raggiungere prestigio sociale e
benessere economico, trovando in ciò il proprio godimento. Questo
godimento non è la felicità che ognuno ha il diritto di cercare anche
andando contro la società e le sue richieste, ma è la legittima soddisfazione
che prova chi ha compiuto i suoi obblighi e doveri sociali. Dal momento
che questo ideale viene presentato come la condizione dell'uomo sano, ogni
altra scelta rappresenta per Freud non tanto un errore morale e sociale,
quanto un disturbo, una nevrosi.<br />
<br /></div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Se dunque, per esempio, – scrive
Fromm - una persona decide di aderire a un qualsiasi partito di tendenze
radicali, nel far ciò egli rivela di non aver ancora superato il suo odio nei
confronti del padre avente origine dal suo complesso edipico; oppure se un
individuo si sposa in maniera non confacente alla norma borghese per
differenza di età o di ceto sociale con il proprio partner, o se ancora, in
relazione al proprio lavoro e alla propria carriera, non si comporta in
maniera corrispondente ai modelli sociali convenzionali e persino se prova
a contraddire la teoria freudiana, in tutti questi casi egli non fa che
dimostrare di avere dei complessi non risolti e manifesta 'resistenze' se
cerca di opporsi a questa diagnosi dell'analista.</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<br />
Questo atteggiamento
per Fromm non è soltanto reazionario dal punto di vista sociale e politico;
esso rende anche meno efficace l'analisi. Un paziente ha bisogno, per
aprirsi interamente al proprio analista, di sentirsi da lui accettato, di
avvertire che la sua esigenza di felicità viene compresa a fondo, quale che
sia la direzione che essa prende. Ma uno psicoanalista che consideri come nevrosi qualsiasi deviazione dall'ideale individuale borghese e capitalistico
non può realmente comprendere una ricerca della felicità al di fuori del suo
modello e dei suoi tabù. Un tale analista non può avere per molti dei suoi
pazienti altro che un atteggiamento di tolleranza, che non è comprensione
o accettazione, e ciò verrà percepito dai pazienti, facendo fallire l'analisi o
protraendola all'infinito. </div>
<div style="text-align: justify;">
Fromm intende quindi attuare una revisione della psicoanalisi,
superandone gli aspetti autoritari e borghesi e dandole un orientamento
progressista. La stessa concezione freudiana dell'inconscio va rivista. Per
Freud l'inconscio è individuale. Jung, come abbiamo visto, sostiene
l'esistenza di un inconscio collettivo, comune a tutti gli uomini. <span style="background-color: #fff2cc;">Fromm
parla di inconscio sociale</span>. Ciò che la nostra coscienza non accetta, e
pertanto rimuove, è ciò che è in contrasto con i valori condivisi della
società di cui facciamo parte. Esistono dunque delle pulsioni che un'intera
società rimuove, e che vanno a costituire il suo inconscio.<br />
L'individuo
rimuove ciò che è già stato rimosso dalla società. Ma perché lo fa? Perché si
adegua? Per Freud, all'origine c'è la paura di essere castrato che il bambino
vive nel complesso di Edipo. Fromm non considera valida l'interpretazione freudiana del caso
del piccolo Hans, che lo ha portato alla elaborazione del complesso di
Edipo. A spingere l'individuo ad adattarsi alle richieste sociali è, invece, la
paura dell'isolamento. Questa paura è per Fromm qualcosa di molto forte,
addirittura più forte della sessualità e della voglia di vivere. Questo
dovrebbe condurre alla conclusione pessimistica che un individuo può
accettare qualsiasi degradazione o crudeltà, qualsiasi negazione della
propria umanità, se ciò è indispensabile per essere accettato dalla propria
società. Le cose in realtà non stanno così. L'uomo fa parte della propria
società, ma è anche un membro dell'umanità. Se avverte il bisogno di
essere accettato, ha anche un altro bisogno: quello di essere un uomo. In
una società in cui, per assurdo, fossero vietate la moralità, l'arte, la
bellezza, l'amore, tutto ciò che l'uomo ha di positivo, tutte queste cose
finirebbero nell'inconscio. L'inconscio non è più, dunque, il ricettacolo di
ogni negatività, ma «rappresenta l'uomo universale, l'uomo totale», con i
suoi aspetti bestiali, ma anche con la sua creatività. In una ipotetica società
interamente violenta e volgare, l'inconscio sarebbe il luogo della
spiritualità. All'individuo si pone il compito difficile di criticare la società di
cui fa parte ed i suoi tabù, per appropriarsi di ciò che fa parte in positivo
della propria umanità. La ricerca di Fromm intende aiutare l'individuo a
compiere questa scelta, ad indirizzarlo verso la meta di una umanità
positiva, di una vita completa, felice, libera. Ma la libertà non è facile. Essere liberi vuol dire anche essere soli: essere
l'origine dei propri pensieri e delle proprie azioni, rispondere in prima
persona per i propri errori. Tutto questo non è facile. Molto più semplice è
rifugiarsi nel conformismo, fare quello che fanno gli altri e pensare come
tutti. </div>
<div style="text-align: justify;">
E' in questo modo che si spiegano il fascismo, spiega Fromm in <i style="background-color: #fff2cc;">Fuga
dalla libertà</i> (1941). I sistemi totalitari hanno una struttura gerarchica che
ha il vantaggio di impedire il pensiero autonomo. Ognuno obbedisce ad un
superiore, che è il responsabile delle sue azioni. Ognuno è inquadrato in un
sistema capace di dar senso all'esistenza individuale. Al singolo non si
chiede nulla di più dell'obbedienza. Se ci chiediamo come è stato possibile
Auschwitz, ci troviamo di fronte proprio all'obbedienza. Lo sterminio degli
ebrei, come tanti altri tragici errori del Novecento, è stato reso possibile
dalla obbedienza di una intera nazione alla volontà di un capo politico. Ciò
mostra i rischi di ogni sistema gerarchico e aiuta a scoprire il valore della
disubbidienza. L'uomo che non obbedisce, che afferma la propria libertà di
giudizio e di azione, è l'uomo che può salvare il mondo dalla follia
collettiva, quella follia che potrà giungere, se non vi sarà qualcuno ad
ostacolarla, fino all'autodistruzione dell'umanità.
L'uomo contemporaneo, sostiene Fromm in <i style="background-color: #fff2cc;">Avere o Essere?</i> (1976), la sua
opera più famosa, è infelice perché confonde l'essere con l'avere. L'uomo
che vive secondo il principio dell'avere cerca la felicità attraverso il
possesso delle cose ed il potere sulle persone. Ad esempio, acquista
l'automobile e trae da ciò un piacere particolare, che però non dura: dopo
due anni ne acquista una nuova, per provare nuovamente quel senso di
soddisfazione legata al dominio che l'acquisto di un bene prestigioso gli
dà. Come si può immaginare, la via dell'avere non porta alla felicità. Essa
stabilisce un rapporto tra un soggetto e gli oggetti che possiede, ma si
tratta di un rapporto illusorio. Da una parte gli oggetti sono transitori,
possono rovinarsi o distruggersi; dall'altra il soggetto può perdere la
capacità di possederli. L'automobile di lusso che ho acquistato può venirmi
rubata o rovinarsi in seguito ad un incidente; io che ne sono il proprietario
posso perdere la capacità di guidarla a causa di una malattia. Nessuno
dunque può stabilmente possedere nulla. Ci si può illudere di possedere,
però. E si tratta di una illusione pericolosa, perché rende oggetti noi stessi.
Se mi definisco come possessore di cose, alla fine sono le cose a possedere
me, perché tutto ciò che sono dipende da loro. </div>
<div style="text-align: justify;">
La via dell'avere è la via
della morte, perché stabilisce rapporti tra un soggetto-cosa ed un oggetto-cosa.
La via dell'essere è l'unica che può rendere felici. Se è relativamente facile
descrivere la via dell'avere, perché si tratta di una relazione tra cose, e le
cose sono facilmente descrivibili, è tutt'altro che facile descrivere l'essere.
Qui, per Fromm, si toccano i limiti della psicologia. Quello che un
individuo è nella sua realtà più profonda non può davvero essere
compreso. Ognuno resta, nella sua dimensione più profonda, un mistero
per gli altri; ognuno è unico ed irripetibile. E' possibile tuttavia indicare
alcune caratteristiche comuni di coloro che hanno preso la via dell'essere.
In primo luogo, si distinguono per l'assoluta libertà dai beni di questo
mondo. Non cercano il potere, il denaro, il possesso. Questo non vuol dire
che siano privi di potere. Hanno un potere diverso, che nasce
dall'interiorità. E' il potere di chi è indipendente, ragionevole, creativo. <span style="background-color: #fff2cc;">La
via dell'essere è caratterizzata da una attività non alienata</span>. Il nostro è il
tempo dell'attività, e tuttavia pochi sono in grado di compiere una vera
attività. In genere confondiamo l'essere attivi con l'essere indaffarati.
Siamo realmente attivi, sostiene Fromm, quando siamo consapevoli di
essere noi la sorgente della nostra azione. Non siamo realmente attivi se,
ad esempio sul lavoro, ripetiamo in modo inconsapevole dei
comportamenti standardizzati. La vera attività è spontanea e produttiva,
anche se non produce nessun bene concretamente osservabile. Leggere una
poesia comprendendola a pieno o anche solo guardare un albero in modo
profondo, diverso dallo sguardo distratto che comunemente rivolgiamo a
questi esseri viventi, sono attività altamente produttive, anche se non
portano alla creazione di beni consumabili o utili. La via dell'essere porta al
desiderio di condivisione e di dono, così come quella dell'avere stabilisce
un conflitto con gli altri, che sono concorrenti nel possesso dei beni. <span style="background-color: #fff2cc;">La via
dell'essere è, in altri termini, la via della vita e dell'amore.</span>
Entrambe le modalità, le vie esistenziali, fanno parte della natura umana,
anche se la prima ha preso il sopravvento nelle moderne società industriali.
Fromm sostiene la possibilità della creazione di una nuova società, una
società dell'essere dopo quella capitalistica dell'avere. Crollato il mito della
Città Terrena del Progresso, che è degenerata in una Torre di Babele che
sta creando il caos, bisogna per Fromm edificare la <span style="background-color: #fff2cc;">Città dell'Essere</span>, che
sarà la sintesi della spiritualità del Medioevo e del razionalismo e della
scienza dell'età moderna. Ciò potrà avvenire solo riducendo
drasticamente il possesso di beni e la brama di possesso, vale a dire
ponendo un argine al dilagare del consumismo. Nelle società industriali e
consumistiche si creano ad arte una quantità di bisogni artificiali, per
soddisfare i quali occorre acquistare i beni prodotti dall'industria. Questi
bisogni vanno attentamente vagliati, sostiene Fromm, per giungere ad un
consumo sano, che soddisfi quei bisogni che sono vitali e irrinunciabili. La
pubblicità dovrà essere messa al bando, così come il lavaggio del cervello
operato dai politici con la propaganda. La Città dell'Essere è una
democrazia industriale in cui la democrazia non è apparente, ma resa viva
e reale dalla partecipazione politica degli individui. Per facilitare questa
partecipazione, <span style="background-color: #fff2cc;">il potere viene decentrato e localizzato</span>. Nessuno morirà di
fame, grazie all'introduzione di un reddito minimo garantito, si combatterà
la povertà nei paesi del Terzo Mondo e si libererà la donna dal dominio
patriarcale. Si tratta di proposte che rappresentano il tentativo di pensare
una società alternativa tanto al modello capitalistico che a quello
comunistico. A distanza di trent'anni, molte di queste proposte tornano nei
movimenti di contestazione della globalizzazione economica: è il caso, ad
esempio, del reddito minimo di inserimento, oppure della limitazione dei
consumi in vista di una vera e propria decrescita economica, sostenuta da
molti gruppi della sinistra antagonista e pacifista.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Bibliografia</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Avere o Essere?</i>, <i>Fuga dalla libertà</i> e <i>L'arte di amare</i> (le tre opere più popolari di Fromm) sono disponibili in edizione economica Mondadori. Per una introduzione al suo pensiero, è utile R. Funk, <i>Erich Fromm. La vita e il pensiero</i> (ErreEmme, Pomezia 1997).</div>
<br />
<b>Links</b><br />
<br />
<a href="http://www.ifefromm.it/">International Foundation Erich Fromm (in italiano)</a><br />
<br />
<b style="text-align: justify;">Torna al percorso: </b><a href="http://www.discorsocomune.info/p/la-psicoanalisi-oltre-freud.html">La psicoanalisi oltre Freud</a><br />
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<h2 style="background-color: white; box-sizing: inherit; clear: both; color: white; font-family: "Source Sans Pro", sans-serif; font-size: 2em; line-height: 1.1; margin: 0px; padding: 0px; text-align: center; text-rendering: optimizeLegibility;">
</h2>
</div>
<div style="text-align: right;">
<a href="https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/deed.it">CC BY-NC-ND 3.0 IT</a></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-3347788963752141572016-12-12T08:26:00.000+01:002020-03-24T21:57:07.234+01:00Il concetto di cultura<div style="text-align: justify;">
L’antropologia culturale studia l’essere umano come essere culturale. Ma cosa si intende con cultura? Nell’uso corrente del termine, la cultura ha a che fare con lo studio e l’acquisizione di conoscenza più o meno raffinata, ed è spesso certificata da diplomi o lauree. Da questo punto di vista le persone si distinguono in colte ed incolte. Dal punto di vista antropologico, invece, <span style="background-color: white;">tutte le persone hanno cultura</span>. Fin dalla nascita, noi siamo immersi in un ambiente umano dal quale riceviamo influenze determinanti per il nostro modo di essere. Quello che siamo è il risultato dell’incontro di natura e cultura. Abbiamo una certa statura, la pelle di un certo colore, i capelli scuri o biondi, eccetera, ma il modo in cui acconciamo i capelli, il fatto di lasciarli crescere o tagliarli, o l’usanza di praticare tatuaggi sulla pelle, o il modo di vestirci appartengono alla cultura. Per natura possediamo la capacità di parlare, ma è grazie alla cultura che impariamo una lingua particolare. Anche gli atti più naturali, come mangiare o il sesso, hanno un aspetto culturale che è determinante: quello che mangiamo effettivamente deriva dalla cultura cui apparteniamo, così come il modo in cui concepiamo gli atti sessuali. In alcune culture alcuni cibi sono vietati, o perché sacri o perché considerati impuri, e in tutte le culture esistono molti divieti che riguardano la sfera sessuale, che tuttavia variano molto: in alcune culture l’omosessualità, ad esempio, è fortemente condannate, in altre ammessa, e lo stesso vale per i rapporti prematrimoniali o per la promiscuità sessuale.<br />
<a name='more'></a></div>
<div style="text-align: justify;">
La prima definizione di cultura in senso antropologico si trova nel libro <i><a href="https://archive.org/stream/primitiveculture01tylouoft#page/n7/mode/2up">Primitive Culture</a></i> del 1871 di Edward B. Tylor: </div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
La cultura o civiltà, presa nel suo senso etnografico più ampio, è quell'insieme complesso che include conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro della società. </blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZmSVmOpjntfnJkvbYhZKCNdXS6Kvb1LexYtLY73wKYJuJx7eHyJIMXUyhy9p3j8uNgZaa8gphOsHut6dCGTSQ86TSiH9QQ5WdtcqCBvFFSpXHXmTybAf_EwvWE11kec5whsHoN3nLNec/s1600/primitiveculture.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="547" data-original-width="330" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZmSVmOpjntfnJkvbYhZKCNdXS6Kvb1LexYtLY73wKYJuJx7eHyJIMXUyhy9p3j8uNgZaa8gphOsHut6dCGTSQ86TSiH9QQ5WdtcqCBvFFSpXHXmTybAf_EwvWE11kec5whsHoN3nLNec/s320/primitiveculture.jpg" width="193" /></a></div>
Alcuni di questi aspetti riguardano <span style="background-color: #ffe599;">l’</span><span style="background-color: #ffe599;">aspetto intellettuale, immateriale</span>, e sembrano avvicinarsi alla cultura intesa nel senso comune. Ma la morale e il diritto, ad esempio, non sono necessariamente scritti, né hanno a che fare con lo studio. Un popolo può avere un diritto basato su regole non scritte ed una morale condivisa pur senza possedere il diritto e la morale come discipline. Altro aspetti hanno a che fare con <span style="background-color: #ffe599;">l’aspetto materiale dell’esistenza</span>. Ogni popolo ha una sua tecnologia, un suo modo di costruire le case, di fabbricare utensili, di confezionare vestiti, di cucinare i cibi. Nella definizione di Tylor, la cultura è un insieme. Questo vuol dire che ogni aspetto di una cultura è in relazione con gli altri: un antropologo studia la cucina di un popolo interrogandosi sui suoi rapporti con la religione, con l’arte o con la morale. Le culture si presentano come degli universi di senso compatti, anche se spesso può essere difficile orientarsi in esse per chi proviene da una culura diversa.</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-29454464843509325172016-12-12T07:00:00.000+01:002020-04-03T08:47:28.418+02:00Pulsione di vita e pulsione di morte<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
</div>
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeFsIURdetVBuTMvryJtBuEsuEYQ8r25H3P4Zw2H7BxxD50YcWSa71893dfDgWQJPqD16jXuhQHZEyUHs0X0BU-kic2kSwmjqBdDx_XpwaK8bxu-yzInMHUb1smfxCdDRNGz705IgXrUk/s1600/d513a1db-9342-4563-8efd-fcac64081959_large.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="853" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeFsIURdetVBuTMvryJtBuEsuEYQ8r25H3P4Zw2H7BxxD50YcWSa71893dfDgWQJPqD16jXuhQHZEyUHs0X0BU-kic2kSwmjqBdDx_XpwaK8bxu-yzInMHUb1smfxCdDRNGz705IgXrUk/s1600/d513a1db-9342-4563-8efd-fcac64081959_large.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Un comizio di Hitler</td></tr>
</tbody></table>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
Nella prima metà dell'Ottocento il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer sviluppa una filosofia pessimistica influenzata dal buddhismo e destinata a sua volta ad esercitare una profonda influenza non solo sulla filosofia, ma anche sull'arte e la letteratura. Nell'analisi di Schopenhauer, l'esistenza umana è caratterizzata dalla sofferenza e dalla noia; la prima nasce dal bisogno, che è mancanza ed insoddisfazione, mentre la seconda subentra appena il bisogno viene soddisfatto. Unica via d'uscita è la liberazione dalla volontà, la forza cosmica che ci costringe a cercare la vita con il suo dolore. La liberazione è indicata nel buddhismo con la parola nirvana. Essa è propriamente la cessazione del desiderio, che Schopenhauer, non diversamente dal Buddha, considera realizzata pienamente attraverso l'ascesi.<br />
<a name='more'></a></div>
<div style="text-align: justify;">
L'incontro di Freud con Schopenhauer avviene nel momento forse più travagliato del suo pensiero, in cui, se da un lato getta le basi della più matura formulazione della sua concezione del soggetto, dall'altra tocca tematiche in cui l'aspetto speculativo sembra prevalere sulla ricerca empirica. Alla fine della seconda guerra mondiale Freud è indotto da quel dramma storico e da alcune tristi vicende personali (principalmente la morte della giovane figlia Sofia) sul lato oscuro, violento, distruttivo dell'essere umano. Nasce così <i>Al di là del principio di piacere</i>, pubblicato nel 1920. </div>
<div style="text-align: justify;">
Durante e dopo la guerra era diventato particolarmente diffuso il fenomeno delle nevrosi traumatiche, una particolare forma di nevrosi nelle quali un trauma non è solo occasione per l’insorgere della nevrosi, ma diventa anche il contenuto del sintomo nevrotico. La persona affetta da nevrosi traumatica, in altri termini, torna continuamente all’evento traumatico, e ciò principalmente nel sogno, nel quale l’evento viene riproposto sotto forma di incubo ricorrente. Freud mette in relazione questa ripetizione nevrotica di un evento traumatico con il comportamento di un bambino di un anno e mezzo, osservato a casa di amici. Il bambino aveva l’abitudine di scagliare lontano i suoi giocattoli e di farli poi ricomparire (ad esempio lanciando un rocchetto di legno con dello spago arrotolato e tirando lo spago per farlo ricomparire), provando una evidente soddisfazione quando l’oggetto ricompariva. Questo comportamento non era, nella interpretazione di Freud, che una riproposizione in forma di gioco di una scena che doveva procurare non poca angoscia al bambino: la scena dell’abbandono da parte della madre e del suo ricomparire.
In entrambi i casi abbiamo dei dati che sono in netto contrasto con il principio di piacere. </div>
<div style="text-align: justify;">
Sognare un evento traumatico o ripetere, attraverso il gioco, una scena che provoca angoscia come l’allontanamento della propria madre sono cose che non possono dare piacere. In esse si rivela piuttosto qualcosa di diverso: la coazione a ripetere. È una coazione che si manifesta durante la relazione tra il paziente e l’analista, durante la quale il primo, invece di ricordare il materiale infantile rimosso, lo ripete con una esperienza attuale; in questo modo alla nevrosi subentra una nevrosi di transfert. La coazione a ripetere si può osservare anche nella vita di persone prive di sintomi traumatici evidenti: “Ci sono persone – scrive Freud – che danno l’impressione di essere perseguitate da qualche fato maligno o possedute da qualche potenza ‘demoniaca’; ma la psicoanalisi è stata sempre del parere che il loro destino è in massima parte da essi stessi fabbricato, oltre ad essere determinato da influenze stabilite nella prima infanzia”. </div>
<div style="text-align: justify;">
Sembra che molte vite seguano un copione ripetitivo, con esperienze finiscano sempre allo stesso modo; dietro questo copione c’è una tendenza del soggetto a ripetere una esperienza originaria, e ciò sia nel caso che la persona sia attiva (ad esempio nella scelta, nella esaltazione e nel rapido abbandono della persona amata) che in quello in cui la persona subisca passivamente quello che sembra essere un destino avverso. Anche in questo caso (Freud cita il caso di una donna che per tre volte si sposa e per tre volte vede morire i mariti poco dopo le nozze) la psicoanalisi ipotizza che sia all’opera una tendenza inconsapevole a ripetere esperienze spiacevoli. </div>
<div style="text-align: justify;">
In tutti questi casi il principio del piacere si rivela insufficiente. La spiegazione dei sogni come appagamento di un desiderio è inadeguata per spiegare gli incubi che ripropongono un evento traumatico. Essi obbediscono piuttosto alla logica della coazione a ripetere. Ma cosa c’è dietro la coazione a ripetere? C’è una pulsione particolare, che Freud definisce “demoniaca”, la cui azione oltrepassa il campo dell’umano. La vita sul nostro pianeta è emersa da materia inanimata, per intervento di una forza di cui nulla sappiamo. Così è nata la vita, nelle sue forme più elementari. In seguito si è evoluta, fino a raggiungere le forme più complesse ed a conquistare la coscienza. Ma questa evoluzione non è, per Freud, una tendenza insita nella vita, quanto piuttosto l’effetto continuato di interventi esterni. Di per sé, la vita ha la tendenza a ritornare allo stato originario della vita inorganica: “Se noi accettiamo come verità, non passibile d’eccezioni, che ogni cosa che vive muore per cause interne - tornando allo stato inorganico -, allora dovremo anche dire che ‘la meta di ogni vita è la morte’, e, guardando ancora più indietro, che ‘le cose inanimate preesistevano a quelle vive’”. </div>
<div style="text-align: justify;">
Questa tendenza demoniaca è la pulsione di morte. Ad essa si contrappongono le pulsioni sessuali, che assumono così il ruolo di pulsioni di vita. Il pensiero di Freud assume così un carattere dichiaratemente dualistico. Non solo nell’uomo, ma in tutto ciò che vive esiste una tendenza alla morte, a tornare all’inorganico da cui è nata la vita, contrastata dalla tendenza a preservare la propria unità e ad associarsi ad altre unità vitali, costituendo organismi più complessi.
Per la comprensione delle pulsioni sessuali nulla, per Freud, è più efficace del vecchio mito platonico esposto da Aristofane nel <i>Simposio</i>: in origine esisteva l’ermafrodito, che fu separato da Zeus nel suo elemento maschile e femminile, che da allora cercano di ricostituire l’unità originaria. È così che opera la sessualità nel mondo umano, ma più generalmente si può scoprire una tendenza simile nella vita delle cellule e nella loro tendenza a costituire organismi pluricellulari. </div>
<div style="text-align: justify;">
Come si vede, può essere fondato il dubbio che il pensiero freudiano sconfini, il <i>Al di là del principio del piacere</i>, nella metafisica o addirittura nel mito. Freud stesso osserva: “Mi si potrebbe chiedere se e in qual misura io stesso sia convinto della verità delle ipotesi che sono state formulate in queste pagine: e la mia risposta sarebbe che io non ne sono convinto né pretendo di persuadere qualcuno a credervi. O, più precisamente, io stesso non saprei dire fino a che punto io vi creda”.
Sarebbe errato però negare ogni valore scientifico a questa fase del pensiero freudiano, se non altro perché la tendenza alla distruzione ed al ritorno all’inorganico, comunque si giudichi dal punto di vista metafisico, è una tendenza all’opera nella storia, una forza realmente demoniaca che induce l’uomo a ripetere le esperienze della violenza, della guerra, dell’assassinio di massa.<br />
<br />
Torna al percorso: <a href="http://durkheimplatz.blogspot.it/p/freud.html">Freud</a><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgP9UwVOqcult6GGoLnY6SC46YXWWjKt0rVCL_2Zfeplv8iz93yKGg1KRtzjBmMpcYD5-jm09efjcCb-6ktCPygOQML-lmnX7hw_08yYz_WQrhLfsFH25S64D_T9cqO2pOWwOSpY6Lt6rI/s1600/cc.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="53" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgP9UwVOqcult6GGoLnY6SC46YXWWjKt0rVCL_2Zfeplv8iz93yKGg1KRtzjBmMpcYD5-jm09efjcCb-6ktCPygOQML-lmnX7hw_08yYz_WQrhLfsFH25S64D_T9cqO2pOWwOSpY6Lt6rI/s1600/cc.jpg" width="200" /></a></div>
<br /></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-11562546949244935302015-12-12T22:09:00.000+01:002020-04-03T08:47:44.810+02:00Palcoscenico e retroscena<div style="text-align: justify;">
A meno che non ci troviamo in un paese di cui non conosciamo la lingua, non è difficile per noi chiedere un’informazione ad uno sconosciuto. Rispondere ad un saluto è per noi un atto quasi automatico: sappiamo quali sono le espressioni verbali e non verbali da impiegare con quella determinata persona; sappiamo che possiamo salutare un amico con un familiare "ciao", mentre per una persona con cui abbiamo relazioni più formali è preferibile un "arrivederci". Quando siamo in treno, sappiamo di non poter attaccare discorso con chi ci sta di fronte senza qualche fondato pretesto, se non vogliamo apparire poco educati.
Tutte queste cose, che ci sembrano assolutamente naturali, comportano in realtà un complesso sistema di regolazione dei nostri rapporti interpersonali. Per quanto possa sembrarci spontanea, una semplice conversazione segue in realtà una serie di regole ben precise, il cui mancato rispetto provoca conseguenze vistose.<br />
<a name='more'></a><br />
Agli inizi del Novecento il sociologo Gabriel Tarde auspicava la creazione di una vera e propria "conversazione comparata", che confrontasse i modi di conversare nelle diverse culture. Da allora, molti progressi sono stati fatti nella comprensione dell’interazione umana e delle relazioni interpersonali.
Nei nostri rapporti con gli altri siamo guidati da una fondamentale <span style="background-color: #ffe599;">fiducia nel prossimo</span>. Quando chiediamo un’informazione, siamo certi che la persona interpellata farà di tutto per aiutarci, quando conversiamo, siamo certi che il nostro interlocutore non se ne andrà bruscamente, quando salutiamo diamo per certo che l’altro risponderà al saluto. Su cosa si basa questa fiducia? Se l’altro fosse assolutamente libero di comportarsi come gli pare, probabilmente questa fiducia non sarebbe possibile. A chiunque sarebbe concesso di piantare di stucco l’interlocutore durante una conversazione e di andarsene. Ma questo succede raramente. La nostra fiducia si basa dunque sul fatto che gli altri nella vita quotidiana, incontrandosi con altri, sono attori che seguono un copione con margini di improvvisazione limitati e con la necessità di ottenere il gradimento del pubblico. Questa metafora teatrale è stata impiegata dal sociologo <span style="background-color: #ffe599;">Erving Goffman </span>nel volume <i style="background-color: #ffe599;">La vita quotidiana come rappresentazione</i> (<i>The Presentation of Self in Everiday Life</i>, 1959).<br />
Secondo Goffman, quando siamo in presenza di uno o più osservatori cerchiamo di trasmettere loro le impressioni che preferiamo, mettiamo in scena una rappresentazione, impiegando una serie di tecniche di controllo delle impressioni che la sociologia ha il compito di studiare. In modo intenzionale o non intenzionale, noi costruiamo sempre una facciata. Se vogliamo ingannare qualcuno, dobbiamo fare attenzione a presentarci in modo da apparire come persone affidabili, trovare un tono adatto, vestirci secondo i canoni correnti di abbigliamento rispettabile. Anche quando siamo sinceri, però, facciamo ricorso a mezzi espressivi che facciano comprendere che stiamo dicendo la verità; costruiamo cioè una facciata.
Noi siamo sempre immersi nella comunicazione con gli altri, ma non in tutte le situazioni si tratta dello stesso tipo di comunicazione. Aspettando un autobus, noi prendiamo atto della presenza degli altri e comunichiamo loro questa presa d’atto. Lo facciamo ricorrendo a forme di comunicazione non verbale: principalmente uno sguardo sfuggente, con il quale è come se dicessimo "so che ci sei, ma non ti darò disturbo". E' il tipo di sguardo che le persone che non si conoscono si scambiano quando sono costrette a stare insieme in uno spazio ristretto. Questa è per Goffman l’<span style="background-color: #ffe599;">interazione non focalizzata</span>, caratterizzata dalla <span style="background-color: #ffe599;">disattenzione civile</span> (espressione contraddittoria per dire che non facciamo attenzione agli altri pur essendo consapevoli della loro presenza). Se alla fermata dell’autobus chiediamo a qualcuno a che ora passerà il prossimo autobus, passiamo da una interazione non focalizzata ad una interazione focalizzata. Possiamo così abbandonare la disattenzione civile e guardare il nostro interlocutore, anche se ci sono proibite molte altre cose: non possiamo dargli del tu, non possiamo avvicinarci troppo, non possiamo toccarlo; o meglio, non possiamo fare queste cose senza incorrere nella disapprovazione sua e di chi si trovasse ad assistere alla scena. Se ci capita di toccare inavvertitamente il corpo di qualcuno che non conosciamo, generalmente ce ne scusiamo. Insomma, nelle nostre interazioni sociali seguiamo un vero e proprio rituale. L’altro, nota Goffman, è paragonabile ad un oggetto sacro, che si può maneggiare solo a condizione di prendere una serie di precauzioni rituali, che sono appunto tutte le nostre regole di cortesia, le buone maniere, le norme non scritte sulla distanza personale, e così via. Poiché i rapporti umani sono reciproci, non soltanto gli altri sono sacri per noi, ma anche noi siamo sacri per gli altri. Nello scambio con l’altro, emergono quindi degli individui dotati di una identità forte, sacrale, intangibile. In questo senso, si può dire che la nostra identità non è soltanto condizionata dalla società, ma nasce realmente all’interno dell’ordine cerimoniale delle interazioni sociali.
L’interazione umana, dunque, è simile ad una rappresentazione teatrale e ad un sistema cerimoniale. La vita di un teatro, però, non si svolge tutta sulla scena. Per Goffman, noi disponiamo di un retroscena, nel quale possiamo allentare la tensione che ci procura il fatto di dover recitare sul nostro palcoscenico quotidiano. Nel retroscena siamo molto più liberi, ci concediamo cose di cui ci vergogneremmo in pubblico, come "cantarellare, fischiare, masticare, rosicchiare, ruttare e avere flatulenze". Questo spazio privato e libero può essere assolutamente individuale, ma può anche essere condiviso con altri. È il caso del mondo del lavoro. Dei commessi sono tenuti ad essere gentili e disponibili con i clienti, anche con quelli intrattabili; nei momenti in cui i clienti non sono presenti, sono liberi di sfogarsi, riempendoli di insulti o facendone la caricatura. Goffman riscontrò un atteggiamento simile nei camerieri di un hotel delle isole Shetland, ma è diffuso in tutti i settori lavorativi ed in tutti i gruppi umani.<br />
<br />
<b>Bibliografia</b><br />
G. Tarde, <i>L’opinion et la foule</i> (1901), Les Presses Universitaires de France, Paris 1989.<br />
E. Goffman, <i>La vita quotidiana come rappresentazione</i> (1959), Il Mulino, Bologna 1969.</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-41754656352295831902015-12-12T21:57:00.000+01:002020-04-03T08:47:58.152+02:00La comunicazione malata<div style="text-align: justify;">
La parola comunicazione ha una etimologia che rimanda al <span style="background-color: #ffe599;">rendere comune</span> ciò che si possiede. Se da una parte dunque comunicazione indica una realtà cui non si può sfuggire – non si può non comunicare, abbiamo visto – dall’altra il senso della parola è realizzato fino in fondo solo in una realtà di compartecipazione e solidarietà, in cui più soggetti condividono conoscenza, sentimenti, progetti. Una tale realtà è possibile solo ove vi sia la volontà, da parte dei soggetti, di rendere realmente comune ciò che si possiede; occorre inoltre che si sia in grado di farlo, quando se ne abbia la volontà. La mancanza di questi due aspetti (la volontà di comunicare e la capacità di farlo in modo efficace) genera una comunicazione in cui manca l’aspetto essenziale del rendere comune, sostituito da diffidenza, incomprensione, ostilità. In questo caso si può parlare di comunicazione malata. </div>
<div style="text-align: justify;">
Le patologie della comunicazione sono state studiate dalla Scuola di Palo Alto in stretta relazione con gli assiomi della comunicazione: per ognuno dei quattro assiomi esiste una forma particolare di patologia della comunicazione. Il primo assioma afferma, come sappiamo, che non si può non comunicare. Anche il silenzio comunica. A volte comunica anche troppo, per cui si preferisce evitarlo, e scegliere una forma di comunicazione verbale, anche se inadeguata.
Un uomo ha passato la sera con una donna. A notte fonda torna a casa, dove la moglie lo attende agitata. Appena entra, gli chiede: "Tu mi tradisci?". L’uomo ha tre possibilità. Può non rispondere alla domanda, ma in questo modo alimenterebbe i sospetti della moglie, ed è come se avesse risposto di sì. Può dirle la verità, comunicando in modo pieno (rendendo comune, cioè, una verità per lei dolorosa). Oppure può scegliere di eludere la domanda rispondendo in maniera evasiva o criptica. Ad esempio può rispondere così: "Che cosa vuol dire tradire?". Oppure: "A questo mondo tutti quanti tradiamo". L’uomo ha accettato di rispondere alla domanda, ma senza accettare l’impegno di rendere comune ciò che si possiede, che appartiene alla comunicazione. In questi casi, che sono piuttosto frequenti, si ricorre a frasi generiche, oppure ad un linguaggio che può essere interpretato in molti modi (quello che gli autori della Scuola di Palo Alto chiamano schizofrenese), o ancora ci si può contraddire sfacciatamente, si possono interpretare le affermazioni dell’interlocutore in modo palesemente distorto: in altri termini, si cerca con ogni mezzo di <span style="background-color: #ffe599;">squalificare la comunicazione</span>. </div>
<div style="text-align: justify;">
Una seconda patologia molto frequente, in relazione con il secondo assioma della pragmatica della comunicazione, è la <span style="background-color: #ffe599;">disconferma</span>. Il secondo assioma riconosce nella comunicazione un aspetto di contenuto ed un aspetto di relazione. Quest’ultimo riguarda la nostra identità. Comunicando, io propongo all’altro – al livello della relazione - una certa immagine di me stesso. L’altro ha tre possibilità: a conferma, il rifiuto e la disconferma.
Madre e figlia sono un negozio di abbigliamento. La figlia ha tredici anni ed in famiglia è ancora considerata una bambina, mentre lei comincia a percepirsi come una "adulta". Nel negozio la figlia vede un abito un po’ audace, certamente non infantile, e lo indica alla madre: "Mi compri quello?" Questa richiesta contiene, al di là del contenuto, un messaggio ben preciso a livello di relazione: "Io non sono più una bambina, ed è giusto che cominci ad indossare abiti da grande". La madre può accettare questa richiesta ("Sì, penso che ti starebbe bene, lo prendiamo") e l’immagine di sé che ad essa è legata ("In fondo non sei più una bambina"), o rifiutarla, mettendo in discussione l’immagine di sé proposta dalla figlia ("No, quel vestito non va bene per te, sei ancora troppo piccola"), oppure può negare la legittimità stessa di quella richiesta: "Chi sei tu per scegliere cosa comprare? Si compra quello che dico io". </div>
<div style="text-align: justify;">
La disconferma è un comportamento pericoloso, che ha conseguenze gravi sulla salute psichica di chi si trova a subirla. Gli studi hanno ipotizzato addirittura un legame tra disconferma e schizofrenia, dal momento che un soggetto che subisca una costante disconferma non riceve solo una negazione dell’immagine di sé ("tu non sei così"), ma una negazione di sé come fonte legittima delle proprie affermazioni ("tu non esisti"). </div>
<div style="text-align: justify;">
Le ricerche sulla comunicazione hanno consentito di mettere in luce un altro fenomeno particolarmente importante nella genesi della schizofrenia: il <span style="background-color: #ffe599;">doppio legame</span>. Per doppio legame si intende una forma di comunicazione paradossale, vale a dire una situazione comunicativa contraddittoria che non consente alcuna soluzione. Il doppio legame si verifica in un contesto caratterizzato da relazioni interpersonali sono intense (nella famiglia, in primo luogo) allorquando un soggetto dà un messaggio che è intimamente contraddittorio, perché afferma qualcosa ed al contempo afferma una cosa contraria riguardante la propria affermazione, senza che il destinatario possa sottrarsi al dovere di reagire a quel messaggio. Il classico esempio è quello <span style="background-color: #ffe599;">dell'ingiunzione "sii spontaneo"</span>: per rispondere a questa ingiunzione bisognerebbe adeguarvisi, ma adeguarsi all'ingiunzione di essere spontaneo significa agire secondo quanto richiesto da un altro, e quindi non essere spontaneo. Situazioni comunicative di questo genere possono capitare sporadicamente, lasciandoci confusi ed irritati; quando diventano la norma delle relazioni comunicative, quando il paradosso diventa abituale, il sistema diventa schizofrenico. La malattia del sistema diviene evidente in uno dei suoi membri, ma è tutto il sistema ad essere malato. Lo schizofrenico va visto, in base a questa teoria, come il rappresentante di un sistema caratterizzato da un modello comunicativo schizofrenico. La terapia, di conseguenza, non può riguardare il singolo individuo, ma deve coinvolgere l'intero sistema, principalmente la famiglia. </div>
<div style="text-align: justify;">
Una storia raccontata da Watzlawick in <i>Istruzioni per rendersi infelici</i> mostra in modo efficace e divertente il fenomeno della <span style="background-color: #ffe599;">profezia che si autoavvera</span>, che è la più frequente distorsione della punteggiatura delle sequenze comunicative: </div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed egli ce l'ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l'esistenza agli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questi abbia il tempo di dire "Buon giorno", gli grida: "Si tenga pure il suo martello, villano!"</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Tutti noi tendiamo a punteggiare a nostro favore le sequenze degli scambi comunicativi cui abbiamo preso parte, in modo tale da far apparire le nostre affermazioni (o insulti) come risposta a quelle altrui, ignorando o fingendo di ignorare la circolarità della comunicazione. Nelle profezie che si autoavverano questa punteggiature avviene con sequenze comunicative non reali, ma solo possibili. Io interpreto la mia affermazione come risposta ad una possibile, ma certa, affermazione altrui. Purtroppo gli esempi di questa patologia della comunicazione non sono sempre innocui o divertenti come quello dell'uomo del martello. È proprio questo meccanismo, ricordano gli autori di Palo Alto, che scatena a livello mondiale la corsa agli armamenti. Lo stato A afferma di aver bisogno si armi sofisticate perché altrimenti lo stato B lo aggredirà. Lo stato B affermerà di ricorrere agli armamenti perché lo stato A si sta armando per scopi evidentemente aggressivi.
C'è un'altra condizione che favorisce questa competizione tra nazioni o individui. Quando le relazioni sono simmetriche, c'è la tendenza di ognuno dei due comunicanti a prendere il sopravvento sull'altro, uscendo dalla situazione di uguaglianza per stabilirne una di dominio. </div>
<div style="text-align: justify;">
L' <span style="background-color: #ffe599;">escalation simmetrica</span> è la patologia delle relazioni simmetriche. Anche le relazioni complementari hanno il loro risvolto patologico, che sono più importanti per la nascita di vere e proprie patologie psicologiche. In una relazione complementare c'è chi è in una posizione di dominio e chi in una posizione di inferiorità. In alcuni casi questa complementarità può essere particolarmente rigida e mostrarsi come una vera e propria follia a due, in cui la persona che occupa la posizione inferiore vive un senso di frustrazione costante, perché la sua identità viene disconfermata, e tuttavia non riesce, per una sorta di accordo perverso, ad uscire da quella situazione relazionale. È il caso di alcune famiglie in cui i figli (spesso figli unici) sono costretti anche in età adulta in uno stato di costante minorità psicologica; è anche il caso del sadomasochismo, in cui la crudeltà di un partner si amalgama con la sottomissione e l'umiliazione volontaria dell'altro.
Come impresa rischiosa, la comunicazione può fallire o bloccarsi. Non sempre però ad essa segue il silenzio. A interrompersi è la comunicazione nel modulo numerico: il parlarsi. In genere però si continua a comunicare con l'altro modulo, quello analogico, il linguaggio dei gesti, dei simboli, dei rituali. Dopo un litigio il marito può far recapitare alla moglie dei fiori o azzardare una carezza. Ma il modulo analogico ha, come abbiamo visto, dei limiti ben precisi: non è possibile dire tutto e, soprattutto, non è possibile comunicare in modo non ambiguo. Quando si comunica con il modulo analogico si può verificare quindi una ulteriore patologia della comunicazione, nel momento in cui si sbaglia a tradurre il materiale analogico. Delle lacrime di rabbia, dopo un litigio dovuto ad accuse infondate, possono essere scambiate per lacrime dovute al senso di colpa, e quindi interpretate come una ammissione della colpa. In realtà, quando comunichiamo nel modulo analogico non facciamo affermazioni, ma invochiamo una relazione, facciamo proposte, domande, minacce che riguardano il nostro rapporto futuro con la persona cui ci rivolgiamo.</div>
<div style="text-align: justify;">
<b><br /></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Bibliografia</b></div>
<div style="text-align: justify;">
P. Watzlawick, <i>Istruzioni per rendersi infelici </i>(1983), Feltrinelli, Milano 1991.</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-1818248386346882382015-12-12T21:42:00.000+01:002020-04-03T08:48:10.007+02:00Comunicazione e stati dell'io<div style="text-align: justify;">
L’Analisi Transazionale è una corrente psicoterapeutica creata dallo psicologo americano <span style="background-color: #ffe599;">Eric Berne</span>, alla cui base c’è la distinzione tra <span style="background-color: #fff2cc;">tre stati dell’io</span>: Genitore, Adulto e Bambino. Uno stato dell’io è un insieme coerente di sentimenti, cui corrisponde un insieme di comportamenti. In altri termini, noi abbiamo di volta in volta, nelle diverse situazioni della nostra vita, sentimenti da bambino, da adulto e da genitore, e ci comportiamo di conseguenza. Siamo nello stato dell’io Genitore quando ci comportiamo come si sarebbero comportati i nostri genitori, dell’Adulto quando valutiamo una situazione in modo oggettivo, affrontiamo razionalmente i problemi e siamo concentrati sul qui ed ora, e del Bambino quando, pur essendo adulti, reagiamo come avremmo fatto da bambini, quando siamo creativi, spontanei, tesi al divertimento ed alla gioia. </div>
<div style="text-align: justify;">
La personalità di un uomo e di una donna si può rappresentare quindi con il seguente <span style="background-color: #ffe599;">diagramma strutturale</span> (dove G sta per Genitore, A per Adulto e B per Bambino). </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh04GR6F94RSxiEz1I7zrvS_PjcHdDPmupbizEyIXG8_y0HhP48ekGort5uMO1NxpC4mbA7oxL9k-RoVhY4eHO48YSpM2RpATXEsRwdOThZFXZP3hsoXAMw6-_osC1OyYgqeJ6zxOOVx28/s1600/at_01.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="263" data-original-width="306" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh04GR6F94RSxiEz1I7zrvS_PjcHdDPmupbizEyIXG8_y0HhP48ekGort5uMO1NxpC4mbA7oxL9k-RoVhY4eHO48YSpM2RpATXEsRwdOThZFXZP3hsoXAMw6-_osC1OyYgqeJ6zxOOVx28/s1600/at_01.jpg" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Questo diagramma rende molto più complessa la considerazione della situazione dalla quale siamo partiti (due persone che comunicano). La comunicazione, infatti, non è più soltanto tra persone, ma tra stati dell’io. Quando ci rivolgiamo a qualcuno, possiamo farlo trovandoci nello stato del Genitore, dell’Adulto o del Bambino. Se chiedo una semplice informazione, sono nello stato dell’Adulto, se faccio un rimprovero sono in quello del Genitore, se propongo un gioco o mi lamento in quello del Bambino. Non solo. Ogni nostra comunicazione – che nel linguaggio dell’Analisi Transazionale si chiama <span style="background-color: #ffe599;">stimolo transazionale</span> – può essere rivolta al Genitore, all’Adulto o al Bambino dell’altro. Nel momento in cui l’altro risponde (la risposta si chiama reazione transazionale) possono succedere due cose: a rispondere può essere lo stesso stato dell’io cui mi sono rivolto con la mia domanda, oppure uno stato diverso. Se lo stato dell’io è lo stesso, si parla di transazione complementare, semplificata dal diagramma che segue: </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhq504Is9FJcXCRUzWUFewR4JtfZbSUmkjCAJEnMd_6scagCHyKlHVRfjMwF0kAv69sxqKVVFlN5gRYIQ4qjkTB0uRHDTGLtrXOR9AQExT5wi-OdxVFgPhhpnjP8h7s6uNGIHH8wMIXJr4/s1600/at_02.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="253" data-original-width="396" height="204" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhq504Is9FJcXCRUzWUFewR4JtfZbSUmkjCAJEnMd_6scagCHyKlHVRfjMwF0kAv69sxqKVVFlN5gRYIQ4qjkTB0uRHDTGLtrXOR9AQExT5wi-OdxVFgPhhpnjP8h7s6uNGIHH8wMIXJr4/s320/at_02.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Abbiamo qui uno stimolo transazionale da Genitore a Bambino cui risponde una reazione transazionale da Bambino a Genitore; uno stimolo transazionale da Adulto ad Adulto, cui risponde una reazione transazionale da Adulto ad Adulto; uno stimolo transazionale da Bambino a Genitore, cui risponde una reazione transazionale da Genitore a Bambino. Si tratta di situazioni piuttosto comuni, nei quali i comunicanti provano una sensazione di soddisfazione ed armonia, perché c’è corrispondenza tra ciò che l’uno chiede e ciò che l’altro offre. Questa situazione si chiama <span style="background-color: #ffe599;">transazione complementare</span>, ed è una transazione (cioè uno scambio comunicativo) che procede senza ostacoli, e si interrompe solo per interventi esterni (ad esempio perché è tardi ed uno dei due comunicanti deve andare, o perché interviene una terza persona). </div>
<div style="text-align: justify;">
Diverso è il caso di una <span style="background-color: #ffe599;">transazione incrociata</span>. Essa si ha quando ad uno stimolo transazionale si risponde con una reazione transazionale che non proviene dallo stato dell’io cui era rivolto lo stimolo. Lo schema seguente mostra una transazione incrociata. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUB19qpO9n06E49KG-ecyLgN1wn1Lqqqkff0XLcrHad0AMr0YvxtswK4PVLCjmIS30Y0Q4N8THidMGOCmEaCxdn_O29YVbPMIDnWZ4kEUWUxGkjZ6LeW83goj4gL30STTv62ULZ2B9s4s/s1600/at_03.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="253" data-original-width="399" height="202" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUB19qpO9n06E49KG-ecyLgN1wn1Lqqqkff0XLcrHad0AMr0YvxtswK4PVLCjmIS30Y0Q4N8THidMGOCmEaCxdn_O29YVbPMIDnWZ4kEUWUxGkjZ6LeW83goj4gL30STTv62ULZ2B9s4s/s320/at_03.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Come si vede, in questo caso le linee non procedono parallele, ma si incrociano. Una semplice richiesta da Adulto ad Adulto ha provocato una risposta da Bambino a Genitore. Ad esempio, il soggetto A ha chiesto una informazione, ed il soggetto B ha risposto come se quella domanda contenesse una critica. Come si può intuire, queste transazioni sono molto meno facili delle transazioni complementari. Se le prime procedono virtualmente all’infinito, le transazioni incrociate rappresentano un inciampo nella comunicazione, cui può seguire il silenzio oppure una transazione complementare (nel caso dell’esempio, potrebbe seguire una transazione complementare tra Genitore e Bambino). Questo genere di transazioni abbondano nelle relazioni tra persone che non si comprendono i cui scambi comunicativi lasciano una sensazione di fastidio, a volte anche di rabbia.
Un terzo, importante genere di transazione è la <span style="background-color: #fff2cc;">transazione ulteriore</span>. Nelle transazioni che abbiamo visto, interviene uno stato dell’io alla volta; in quelle ulteriori, gli stati dell’io che intervengono sono due. Queste transazioni, cioè, contengono un messaggio evidente ed un altro nascosto, si rivolgono in modo palese ad uno stato dell’io ed in modo occulto ad un altro. Semplifichiamo ancora con uno schema. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiZJgP0DWmXLBSFShaWok5ggVN_xzcqHFm-8baH7iMXFo2eg1TRdq8D_OvCTTeKc6Cah2-r5BqoKuSlXEPMTCdEahlUNOb0KjGsBuqBHzaKr7XJCU2Y-CqQ_fyY-701i_Vfndj7WuUun9k/s1600/at_04.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="251" data-original-width="393" height="204" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiZJgP0DWmXLBSFShaWok5ggVN_xzcqHFm-8baH7iMXFo2eg1TRdq8D_OvCTTeKc6Cah2-r5BqoKuSlXEPMTCdEahlUNOb0KjGsBuqBHzaKr7XJCU2Y-CqQ_fyY-701i_Vfndj7WuUun9k/s320/at_04.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Qui abbiamo uno scambio comunicativo evidente tra Adulto ed Adulto, ed uno scambio contemporaneo tra Adulto e Bambino. Eric Berne illustra questa situazione con l’esempio di uno scambio di battute tra un commesso ed una casalinga. Il commesso sa che per vendere il suo aspirapolvere deve far leva sulla parte infantile della personalità delle sue clienti (strategia ampiamente sfruttata dai pubblicitari, come vedremo). Per questo mostra alla casalinga l’aspirapolvere più costoso, ed osserva: "Questo sarebbe il migliore, ma lei non se lo può permettere". Apparentemente, questa è una osservazione oggettiva: l’aspirapolvere costa realmente molto, ed evidentemente la casalinga non mostra di essere ricca. Si tratta di una transazione da Adulto ad Adulto. Ma l’osservazione contiene anche una provocazione ed una sfida rivolta alla parte meno razionale della casalinga, che infatti risponde: "E invece lo prendo".
Le transazioni ulteriori, che costituiscono la parte più intrigante dei nostri scambi comunicativi, sono transazioni nelle quali l’aspetto di contenuto e l’aspetto di relazione di una comunicazione, individuati dal secondo assioma della pragmatica della comunicazione, si distinguono per il fatto di essere indirizzati ad aspetti differenti della personalità dell’interlocutore.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Bibliografia</b></div>
<div style="text-align: justify;">
E.Berne, <i>A che gioco giochiamo</i>, Bompiani, Milano 2003</div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7875487232997222710.post-56144672882150250692015-12-12T21:18:00.000+01:002020-04-03T08:48:22.609+02:00La pragmatica della comunicazione<div style="text-align: justify;">
Le nostre parole comunicano, i nostri gesti comunicano, il nostro silenzio comunica. Comunica, anche, il nostro modo di disporci spazialmente nei confronti degli altri. Comunica il nostro modo di vestirci. In un certo senso si può dire che realmente l’abito fa il monaco, perché vestendoci in un certo modo scegliamo consapevolmente l’immagine di noi stessi da offrire agli altri, decidiamo di rassicurarli, di spaventarli, di sedurli, di suscitare rispetto.
Se è così, allora non c’è modo di non comunicare. Siamo condannati a comunicare.
È proprio questa una delle conclusioni cui sono giunti tre studiosi del Mental Research Institute di Palo Alto, in California: <span style="background-color: #ffe599;">Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson</span>. In un libro pubblicato nel 1967, che è diventato un classico della psicologia, questi autori hanno studiato la <span style="background-color: #ffe599;">pragmatica</span>, ossia l’aspetto comportamentale, della comunicazione umana, giungendo a fissare alcuni assiomi della comunicazione.<br />
Il primo di questi assiomi è: <span style="background-color: #ffe599;">non si può non comunicare</span>. Comunicare è un comportamento. I comportamenti umani possono variare, ma non possono mai lasciare il campo ad un non-comportamento. Qualunque cosa l’uomo faccia, l’uomo sta attuando un comportamento; e, dal momento che ogni comportamento comunica qualcosa, ognuno di noi comunica, qualunque cosa faccia.<br />
<blockquote class="tr_bq">
L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito ‘afferrano il messaggio’ e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.</blockquote>
Questa conclusione ha incontrato grande successo, ma anche diverse critiche. Sicuramente chi resta in silenzio comunica e, come abbiamo visto con l’esempio del Buddha, può comunicare anche qualcosa di profondamente importante. Ma, in genere, non definiamo comunicativa una persona molto silenziosa. Il suo silenzio comunica, ma comunica, paradossalmente, l’intenzione di non comunicare. Una persona che cercasse di chiarire i problemi con il proprio partner, e si trovasse di fronte un muro di silenzio, ne dedurrebbe l’incomunicabilità e la necessità di riconoscere la fine di quel rapporto. La persona che fa colazione alla tavola calda senza guardare nessuno sicuramente comunica, ma si tratta di una comunicazione che stronca sul nascere qualunque scambio con gli altri. L’uomo trasmette un messaggio al quale corrisponde l’evitamento da parte degli altri. Ugualmente, la persona che rifiuta il confronto provoca l’allontanamento del partner. In tutti questi casi c’è un unico scambio comunicativo che blocca tutti gli altri possibili scambi comunicativi. C’è una comunicazione che tronca la possibilità di un’ulteriore comunicazione.<br />
Ciò non avviene solo attraverso il silenzio. Risposte evasive, monosillabiche, fatte con tono infastidito, o affermazioni imperative, a voce alta, suscitano lo stesso effetto. Esse non trasmettono solo un contenuto, ma impongono anche un comportamento all’interlocutore. Ugualmente, una risposta affettuosa, simpatica ad una semplice richiesta di informazioni (sull’ora, ad esempio) contiene un invito all’interlocutore ad approfondire la relazione. In altri termini, i nostri messaggi contengono un secondo livello, una specie di messaggio nascosto, con il quale cerchiamo di indurre gli altri ad assumere un determinato atteggiamento. È quel che afferma il secondo assioma della pragmatica della comunicazione:<br />
<blockquote class="tr_bq">
Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.</blockquote>
Detto in modo più semplice, ognuno di noi deve interpretare i messaggi che provengono dagli altri, badando al tono, ala gestualità, ad ogni aspetto che può incidere sul significato di quel messaggio. Un "Tu sei proprio stupido" può assumere molti significati diversi, a seconda che sia detto con un tono iroso, o ridendo, o facendo una carezza. Il tono, la risata e la carezza comunicano dunque qualcosa sul messaggio: per questo si tratta di metacomunicazione.
Il secondo assioma della pragmatica della comunicazione ci consente di riconoscere alcune trappole della comunicazione quotidiana. Frequentemente utilizziamo la discrepanza tra aspetto di contenuto ed aspetto di relazione per spiazzare l’interlocutore, ricorrendo alla metacomunicazione come copertura e giustificazione del messaggio manifesto, o viceversa.<br />
<br />
A: "Sei proprio uno stupido" (sorride, ma è un sorriso non pienamente giustificato dal contesto).<br />
B: "Come ti permetti?"<br />
A: "Come sei permaloso. Stavo scherzando."<br />
In questo caso A ha utilizzato l’aspetto di relazione – leggero ed amichevole – per mascherare e far passare un messaggio manifesto offensivo.<br />
A: "Certo che hai fatto proprio un bel lavoro" (con un tono canzonatorio)<br />
B: "Perché mi dici così? Ho fatto del mio meglio."<br />
A: "Ma sì, infatti ho detto che hai fatto un bel lavoro."<br />
<br />
In questo secondo caso il messaggio manifesto di A vale a coprire la l’aspetto di relazione, che è offensivo. In entrambi i casi A può esprimere critiche verso B senza assumersene la responsabilità.
Entrambe gli esempi riguardano situazioni comunicative che possono sfociare in un litigio. Quando ciò accade, ognuno dei comunicanti cerca di attribuire all’altro la causa dello scontro, individuandone l’origine in una sua precisa affermazione o presa di posizione; l’altro si difenderà sostenendo che la sua affermazione non era che una risposta ad una offesa ricevuta in precedenza.<br />
<br />
A: "Tu mi hai detto che sono uno stupido."<br />
B: "È vero, non lo nego. Ma tu prima avevi detto che sono una persona superficiale."<br />
A: "Ti ho detto che sei superficiale perché mi hai offeso con le tue osservazioni sul mio modo di vestire."<br />
<br />
La schermaglia tra A e B può andare avanti all’infinito. Cosa stanno cercando di fare entrambi? Stanno cercando di individuare l’inizio di quel particolare scambio comunicativo in modo tale da poterne dare una interpretazione favorevole per sé. Detto con il linguaggio comune, si stanno confrontando su chi ha cominciato per primo. Detto con il linguaggio della Scuola di Palo Alto, ognuno dei due interlocutori <span style="background-color: #ffe599;">cerca di punteggiare le sequenze di comunicazione</span>, ponendo il punto d’inizio in un’affermazione dell’altro, in modo tale che le affermazioni proprie risultino essere semplicemente delle risposte, delle reazioni comprensibili e innocenti a provocazioni o altri comportamenti inaccettabili. Una persona esterna, cui A o B raccontassero del loro litigio, avrebbe molta difficoltà a farsene un’idea oggettiva. Se sarà A a raccontarglielo, concluderà che A è stato ingiustamente offeso da B e si è giustamente difeso; il contrario, se a raccontare il litigio sarà B. Lo scambio comunicativo avrà un significato assolutamente differente (contrario) a seconda che venga punteggiato da A o da B. È quello che indica il terzo assioma della pragmatica della comunicazione: <span style="background-color: #ffe599;">la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti</span>.<br />
Abbiamo accennato precedentemente alla comunicazione non verbale. Di che tipo di comunicazione si tratta? Come rientra nel quadro teorico tracciato da questi assiomi? Essa si lega a quell’aspetto di relazione di una comunicazione che il secondo assioma distingue dall’aspetto di contenuto. In altri termini, i messaggi significativi sul piano della relazione sono affidati soprattutto agli aspetti non verbali della comunicazione. E non è difficile verificarlo. Se un uomo dicesse "ti amo" ad una donna, mantenendo un’espressione imperturbabile, avrebbe poca possibilità di essere creduto. Nel campo della relazione, le affermazioni hanno una validità limitata. C’è un linguaggio del corpo, dei gesti, del volto che esprime più liberamente e più sinceramente la verità sulla relazione.
Ma in cosa si differenziano una affermazione ed una carezza? Si tratta di espressioni di due linguaggi differenti. La prima fa ricorso ad un sistema di simboli, quale è appunto il linguaggio, per denotare un oggetto. Per indicare un gatto, dico o scrivo la parola gatto, la quale però, essendo semplicemente un insieme di lettere e di suoni, non ha nessun reale legame con l’animale che indica. C’è un altro modo di indicare un gatto: quello di disegnarlo. In questo caso c’è somiglianza tra il disegno e l’oggetto indicato dal disegno. Nel primo caso io ho adoperato un <span style="background-color: #ffe599;">modulo numerico</span>, nel secondo un <span style="background-color: #ffe599;">modulo analogico</span>. Quest’ultimo esprime dunque una realtà ricorrendo ad una immagine o a una rappresentazione fisica, tangibile. L’amore, l’affetto, la solidarietà vengono espressi con gesti che esprimono immediatamente la situazione relazionale: carezzare la guancia, toccare un braccio, guardare negli occhi. Questi gesti dicono i sentimenti ed i rapporti umani in un modo infinitamente più diretto ed efficace di qualsiasi parola. Hanno però dei limiti. Non è possibile, attraverso il modulo analogico, comunicare cose complesse ed astratte – ad esempio teoremi o idee filosofiche. Non è possibile fare con il modulo analogico un discorso ipotetico ("se… allora"), oppure riferirsi al passato o al futuro. Il modulo analogico non conosce le distinzioni di tempo. Inoltre, il modulo numerico è spesso ambiguo, ed è una ambiguità che complica non poco i nostri rapporti con gli altri. Come fare per sapere se le lacrime di una persona sono di gioia o di dolore? Come distinguere il rossore dovuto alla timidezza da quello dovuto alla rabbia, o la freddezza dalla timidezza?<br />
Il modulo numerico e quello analogico hanno entrambi dei difetti, ed è per questo che li integriamo l’uno con l’altro. Al modulo numerico manca la capacità di esprimere efficacemente contenuti di relazione, a quello analogico la capacità di esprimere messaggi astratti, complessi e non ambigui. Detto con le parole del quarto assioma della pragmatica della comunicazione,<br />
<blockquote class="tr_bq">
gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni. </blockquote>
Il modulo analogico possiede unità di significato della relazione che mancano al modulo numerico, ma non sa come mettere insieme queste unità in modo tale da costruire un discorso che superi ogni ambiguità. È degno di rilievo anche il fatto che gli autori della Scuola di Palo Alto accostano il modulo analogico al processo primario di Freud e quello numerico al processo secondario. L’ambiguità del linguaggio analogico è la stessa ambiguità delle espressioni dell’Es, che è al di qua delle leggi della logica. Il modulo analogico risulterà così maggiormente presente nei bambini, nelle persone con ritardo mentale o con disturbi della personalità, in tutti coloro che non hanno un pensiero logico ben sviluppato. Questo non dovrebbe però indurre a considerare inferiore il modulo analogico, poiché si tratta di una modalità comunicativa fondamentale quando si tratta di saggiare la sincerità dell’altro: "perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell’analogico". Questa affermazione non è in contrasto con la considerazione del carattere ambiguo del modulo analogico, perché tale ambiguità si riferisce alla possibilità di interpretare in modi opposti una stessa espressione analogica, non alla possibilità di usare intenzionalmente il modulo analogico per ingannare. Si può piangere di gioia o di dolore, ma sicuramente un «mi dispiace» accompagnato da lacrime è considerato più sincero di un pentimento espresso in forma esclusivamente verbale (numerica). Resta tuttavia possibile esprimere intenzionalmente sentimenti falsi attraverso il modulo analogico; piangere, ad esempio, finte lacrime di dolore. Si tratta di una possibilità che i teorici della pragmatica della comunicazione sembrano ignorare, e che appare più come una patologia della comunicazione che come una modalità corrente.<br />
Un ultimo, importantissimo aspetto da considerare, è la posizione dei comunicanti. Nella situazione che abbiamo immaginato, i due comunicanti sono amici, e quindi si trovano sullo stesso piano. Non tutte le situazioni comunicative seguono questo modello. Lo scambio comunicativo che avviene tra madre e figlia, tra docente e studente, tra dirigente ed impiegato è essenzialmente diversa. In uno scambio tra amici entrambi hanno la possibilità di alzare la voce, ad esempio, o di reagire scherzosamente alle affermazioni dell’altro; in uno scambio tra persone tra le quali vi è un ordinamento gerarchico ciò non è possibile: vi sono cose che sono consentire all’uno, e cose che sono consentite all’altro. Il dirigente può rimproverare l’impiegato, ma non è vero il contrario. La prima situazione è simmetrica: il comportamento dell’uno rispecchia quello dell’altro. Nel secondo caso abbiamo una situazione complementare, poiché i comportamenti dei due comunicanti si completano l’un l’altro. Il quinto assioma della pragmatica della comunicazione afferma dunque:<br />
<blockquote class="tr_bq">
Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza. </blockquote>
La superiorità di uno dei due comunicanti nell’interazione complementare può essere il risultato dell’evoluzione della relazione tra i due (ad esempio nel caso in cui un coniuge abbia raggiunto una forma di prevalenza sull’altro) oppure essere legata al ruolo (la relazione tra docente e studente, ad esempio). Nel primo caso, la normalità delle interazioni complementari è la degenerazione di un rapporto che originariamente era simmetrico (presumibilmente da fidanzati avevano un rapporto paritario). Con il tempo, uno dei due è riuscito ad assumere una posizione dominante, posizionando l’altro un gradino più in basso. Per approfondire la modalità di questo posizionamento dell’altro nella comunicazione quotidiana abbandoniamo un attimo la scuola di Palo Alto, per rivolgerci all’Analisi Transazionale.<br />
<br />
<b>Bibliografia</b><br />
<span style="font-variant-numeric: normal;"><span style="font-family: "times new roman" , serif;">P. Watzlawick, J.H.BEavin, D.D.Jackson,</span></span><span style="font-family: "georgia" , serif; font-size: 10pt;"> <i>Pragmatica della comunicazione umana</i>, Astrolabio, Roma 1971.</span></div>
Antonio Vigilantehttp://www.blogger.com/profile/01209651061153776022noreply@blogger.com0