Antonio Gramsci
Si deve ad Antonio Labriola  (1843-1904) la prima diffusione del pensiero di Marx e l’avvio di una vera e propria corrente filosofica marxista nel nostro paese. Formatosi sull’idealismo napoletano ed avvicinatosi in seguito all’herbartismo, Labriola è approdato al marxismo dopo un viaggio in Germania. In un clima culturale caratterizzato dalla presenza del positivismo e del darwinismo, Labriola precisa preliminarmente che il materialismo marxista non riduce affatto l’uomo alla natura, affermando al contrario la libertà (non illimitata, ma reale) dell’uomo che attraverso il lavoro costruisce la realtà storica, che è altro dalla natura. Esso, afferma introducendo una formula che sarà ripresa da Gramsci, è una “filosofia della praxis”, centrata sull’operare dell’uomo che agisce sulla natura per trasformarla. Se questa azione è in primo luogo economica, è errato però dedurne che il marxismo sia un economicismo volgare e riduca tutto al fattore della produzione: se si vuole comprendere la realtà storica dell’uomo non è possibile ignorare tutti gli aspetti sovrastrutturali, né d’altra parte è sempre facile individuare i rapporti tra struttura e sovrastruttura. Non esiste alcuna derivazione meccanica delle espressioni culturali dai rapporti di produzione. Scrive Labriola in Del materialismo storico (1896):

La sottostante struttura economica, che determina tutto il resto, non è un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori, a guisa d’immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni, e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie. Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato, spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile.  

Lo studio scientifico della storia non mancherà di considerare l’aspetto economico, ma eviterà ogni riduzionismo, consapevole della complessità della realtà umana. Se si distacca dal positivismo e dal materialismo naturalistico, la filosofia della praxis si distacca ancora più nettamente da qualsiasi forma di idealismo, che perde completamente di vista le reali dinamiche storiche, facendo discendere la concretezza della realtà storica da un elemento ideale. “Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico”, scrive Labriola in una delle lettere a George Sorel (teorico del sindacalismo rivoluzionario) raccolte nel volume Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898). 
Ed è dal neo-idealismo che verrà l’opposizione più forte al marxismo italiano. Benedetto Croce si era avvicinato in gioventù al marxismo proprio grazie alla mediazione di Labriola, di cui aveva seguito le lezioni all’Università di Roma. Ma quella marxista fu solo una fase (ed anche breve) del suo pensiero, culminata nella pubblicazione di Materialismo storico ed economia marxistica (1900), una raccolta di articoli sul marxismo pubblicando la quale Croce si dichiarava già oltre il marxismo. Il suo approccio al marxismo era, del resto, puramente intellettuale, alieno da qualsiasi preoccupazione politica per il riscatto del proletariato (“...tu mi dai l’aria di un epicureo che mediti su le forme del pensiero, ignaro della vita”, gli scriverà Labriola in una lettera del 1898; e Croce replicherà: “Lasciatemi fare, dunque, il letterato: almeno per ora che non trovo di meglio da fare”). 
Dopo aver negato al marxismo ogni valore sia come teoria filosofica compiuta che come scienza economica, Croce afferma in quei saggi giovanili che esso è nulla più che un “semplice canone d’interpretazione storica” che invita a fare attenzione agli elementi economici per la comprensione dei fatti storici e sociali. In seguito, il giudizio negativo si estenderà dal marxismo al comunismo storicamente realizzato in Russia. In un saggio del 1938 (Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia), rievocando gli ideali politici di Labriola, il suo sogno di una società in cui non esistono classi né impedimenti al libero sviluppo di ognuno, commenta che si tratta di “immaginazioni” che si leggono con un “sorriso amaro” “quando si ha inanzi agli occhi, nel paese in cui il comunismo marxistico ha fatto le sue prove, il più pesante stato che la storia mai ricordi, totalitario, cioè invadente tutte quelle forme della vita sulle quali lo stato non ha diritto alcuno, e reggentesi con l’applicazione quotidiana della più sbrigativa delle pene, quella di morte, inflitta indifferentemente a non comunisti, a comunisti e ad ultracomunisti”. 
Quanto a Giovanni Gentile, la sua critica del marxismo è condensata in un’opera del 1899, La filosofia di Marx. A differenza di Croce, Gentile afferma che il marxismo è una vera filosofia della storia, anche se non originale, poiché riprende la filosofia della storia hegeliana con la semplice sostituzione dell’Idea con la materia. Una operazione che, però, conduce ad una contraddizione insanabile: il materialismo di Marx è storico, ma in quanto tale non è più materialismo, poiché la storia è spirito. Gentile riconosce i meriti della concezione marxista di prassi, che supera i limiti del materialismo tradizionale: la realtà esterna non è più un semplice dato, ma il prodotto dell’azione umana, la costruzione del soggetto. ma Marx non si è reso conto, per Gentile, che questo vuol dire appunto affermare il primato dello spirito sulla materia, che è esattamente quello che fa l’idealismo. Il marxismo non è che un “deviamento dell’hegelismo” consistente nel mettere la materia al posto dello spirito, confondendo il piano del relativo con quello dell’assoluto. La discussione non resterà per molto sul piano filosofico. Con la presa del potere da parte del fascismo, le forze politiche che si richiamano al fascismo (il Partito Socialista prima e il Partito Comunista poi) verranno progressivamente perseguitati, mentre Giovanni Gentile diventerà uno dei principali rappresentanti del Regime, occupando anche il ministero della Pubblica Istruzione e dando il suo nome alla riforma della scuola, che Mussolini considerava “la più fascista delle riforma”.

La vita e le opere

Antonio Gramsci è nato ad Ales, in Sardegna, quarto dei sette figli di un impiegato del registro. Per sostenere la famiglia comincia a lavorare all’età di undici anni presso l’ufficio del catasto. Nelle Lettere dal carcere, rievocando quel periodo, ricorderà: “Ho incominciato a lavorare da quando avevo undici anni, guadagnando nove lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per dieci ore di lavoro al giorno compresa la domenica e me la passavo a muovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto sempre l’aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male”. La sua costituzione fisica era fragilissima: a causa di una caduta all’età di quattro anni aveva subito una grave deformazione della spina dorsale.
Dopo aver frequentato il liceo a Cagliari grazie ad una borsa di studio si trasferisce a Torino per frequentare l’università. Si iscrive a Lettere e approfondisce in particolare gli studi di glottologia, ma soprattutto perfeziona la propria formazione politica socialista, a contatto con la realtà operaia della città della Fiat, entrando anche nella redazione piemontese dell’Avanti!, il giornale del Partito Socialista. Nel 1919 fonda insieme a Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini L’Ordine Nuovo, settimanale che, dopo la Rivoluzione russa, cercava di portare il socialismo italiano su posizioni più apertamente rivoluzionarie.
Nel gennaio del 1921 è tra i fondatori, a Livorno, del Partito Comunista; nel maggio dello stesso anno va a Mosca quale rappresentante del Partito Comunista presso l’Internazionale Comunista. In Russia conosce la violinista Giulia Schucht, che sposerà nel 1923 e da cui avrà due figli. Nel 1924 fonda L’Unità, quotidiano del Partito Comunista e viene eletto al Parlamento. Intanto il Regime fascista procede alla liquidazione di qualsiasi forma di opposizione, sciogliendo tutti i partiti e chiudendo tutti i giornali antifascisti. Gramsci viene arrestato nel 1926 con i principali dirigenti comunisti. Durante il processo il pubblico ministero dichiara: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Una richiesta che viene accolta dal tribunale, che condanna Gramsci a venti anni di carcere, che sconterà presso il carcare di Turi, in provincia di Bari.
Il suo cervello però non smette di funzionare: appena ottiene il necessario per scrivere, nonostante le terribili condizioni di vita comincia la stesura dei Quaderni del carcere, che verranno pubblicati in sei volumi dopo la fine del fascismo. Gli anni del carcere, resi ancora più tormentosi dalle difficilissime condizioni di salute, furono allietati appena dal rapporto epistolare con la madre, i figli e la cognata Tatiana (meno frequente quello con la moglie, affetta da depressione). A causa delle condizioni di salute nel 1933 venne trasferito in una clinica di Formia e poi di Roma, ma soltanto nel 1937 gli venne restituita la libertà. Morì pochi giorni dopo per emorragia cerebrale.

L’egemonia e il ruolo dell’intellettuale

Concetto chiave per intendere il pensiero di Gramsci, che ha un carattere tutt’altro che sistematico, è quello di egemonia. L’analisi marxiana della società ha messo in luce le distinzioni in classi in base al possesso dei mezzi di produzione. Come sappiamo, la classe borghese esercita un dominio su quella proletaria non soltanto attraverso la forza e le istituzioni, ma anche attraverso l’ideologia. E’ da qui che parte Gramsci per elaborare il concetto di egemonia. Perché le classi subalterne non si ribellano? Perché accettano di essere dominare? Perché, soprattutto nelle società complesse, le classi dirigenti riescono ad esercitare una forma di “direzione intellettuale e morale” nei confronti dell’intera società e ad ottenere pacificamente il consenso delle classi dominate, modellandone il gusto, formandone la cultura, le abitudini, la visione del mondo attraverso una serie di apparati (la scuola, la chiesa, la stampa eccetera). Le classi sottoposte hanno interessi economici che le pongono in conflitto con la classe dominante, ma al tempo stesso sono legate culturalmente ad essa. Quegli elementi che Marx considerava sovrastrutturali ora vengono in primo piano e diventano fondamentali dal punto di vista strategico. Più che con la violenza la rivoluzione dovrà avvenire attraverso un cambiamento culturale che porti le classi dominate a liberarsi da ogni soggezione culturale ed a diventare a loro volta egemoni. In primo piano vengono gli aspetti sovrastrutturali della cultura e dell’educazione, e fondamentale diventa la figura dell’intellettuale, colui che produce e diffonde la cultura, sia come figura al servizio del dominio borghese che come avanguardia rivoluzionaria.
E’ grazie all’intellettuale che la classe dominante riesce ad esercitare un ruolo di guida ed indirizzo sulle altre classi sociali, ma è ancora grazie a lui che le classi sottoposte possono liberarsi dall’oppressione e diventare a loro volta egemoni. Affinché l’intellettuale possa adempiere questo compito rivoluzionario, occorre però che sia organico, vale a dire che si consideri parte della classe sociale degli oppressi. In realtà, nota acutamente Gramsci, ogni essere umano è un intellettuale, dal momento che “non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale” e che ognuno, anche al di fuori del lavoro, ha una sua visione del mondo. Ciò non toglie che l’intellettuale abbia un suo compito specifico. “Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale - scrive in Per la storia degli intellettuali (1932), incluso nel terzo volume dei Quaderni del carcere (quaderno 12) - consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo.”
L’intellettuale organico non si pone al di sopra dell’operaio. Il suo compito storico è, invece, quello di ripensare la separazione tra homo faber e homo sapiens, tra lavoratore ed intellettuale, gettando le basi per una nuova visione del mondo che metta al centro il lavoro. Se l’intellettuale borghese si caratterizza in primo luogo per l’eloquenza, il nuovo intellettuale dovrà invece “mescolarsi nella vita pratica” ed essere “costruttore, organizzatore”, ‘persuasore permanentemente’, purché non puro oratore”: ha, cioè, compiti che sono al tempo stesso politici ed educativi. E funzione educativa ha anche il partito, che per Gramsci è l’organismo indispensabile che consente alla volontà collettiva del proletariato di concretizzarsi e di perseguire i propri scopi politici. La teoria dell’egemonia permette a Gramsci di giungere ad una visione complessa e per molti versi ancora attuale della lotta politica. Al paradigma classico della rivoluzione come attacco al centro del potere sostituisce quello della guerra di posizione. La società è il campo sul quale si combatte: la classe che diventa egemone, e che dunque va al potere, è quella che riesce a conquistare più posizioni ed a controllare il tessuto sociale e la vita culturale.

La scuola

Da quanto si è detto è chiara l’importanza dell’educazione nella prospettiva rivoluzionaria di Gramsci. Makarenko si è trovato di fronte al problema di elaborare una pedagogia socialista in grado di formare l’uomo nuovo corrispondente al nuovo ordine sociale inaugurato dalla Rivoluzione comunista. Il problema di Gramsci è un altro: pensare l’educazione come strumento rivoluzionario, come mezzo per arrivare a rovesciare l’assetto politico e sociale. Makarenko e Gramsci condividono il rifiuto di ogni spontaneismo.
Per Gramsci lo studio richiede impegno e fatica esattamente come il lavoro fisico. Scrive ancora in Per la storia degli intellettuali: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”. Se un ragazzino proveniente da una famiglia con tradizioni intellettuali riesce ad adattarsi alle difficoltà dello studio, l’impresa riesce particolarmente difficile per il figlio dell’operaio, che non vi è abituato (esattamente come il primo avrebbe grandi difficoltà ad entrare in fabbrica). Man mano che aumenta la partecipazione delle masse popolari alla scuola media, si avanza l’esigenza di rendere lo studio meno difficile. E’ per Gramsci una tendenza cui bisogna resistere, se si vuole salvaguardare la serietà e il rigore dello studio.
La Riforma Gentile per Gramsci ha accelerato la decadenza della scuola italiana. La vecchia scuola era espressione di una cultura umanistica e di un ideale di vita intellettuale che erano diffusi in tutta la società e costituivano l’identità nazionale. Il tramonto di questo clima culturale ha trascinato con sé la scuola, che è entrata in crisi, distaccandosi sempre più dalla vita. La Riforma fascista non solo non è riuscita a porre rimedio a questa crisi, ma la ha accelerata. Per Gramsci lo stesso nozionismo della scuola pre-gentiliana era positivo, poiché offriva comunque allo studente un bagaglio di base sul quale costruire poi una visione culturale più matura. Perfino il metodo meccanico con cui si insegnavano il greco ed il latino aveva i suoi lati positivi, poiché formava alla disciplina intellettuale. La scuola gentiliana sostituisce (o pretende di sostituire) alle nozioni il pensiero critico; il che vuol dire, per Gramsci, che “l’allievo trascura le nozioni concrete e si ‘riempie la testa’ di formule e parole che per lui non hanno senso, il più delle volte, e che vengono subito dimenticate”.
Gramsci coglie perfettamente il carattere classista della scuola gentiliana, che moltiplica le scuole professionali per i proletari offrendo ai borghesi il percorso liceale, da cui uscirà la classe dirigente. “L’aspetto più paradossale - scrive - è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi”. Autenticamente democratica per Gramsci è una scuola unitaria “che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige”. Gramsci pensa ad un primo grado elementare di tre-quattro anni, seguito da un ginnasio di quattro anni ed un liceo di due anni. Riguardo al metodo, vi sarà una evoluzione dal metodo delle elementari, necessariamente dogmatico, a quello del liceo, che dovrà evitare la mera trasmissione di nozioni e favorire un studio creativo ed autonomo. Il che non vuol dire, precisa Gramsci, che lo studente dovrà scoprire da solo cose nuove, ma che dovrà essere centrale l’iniziativa dello studente e l’insegnante, cessando di dirigerlo dall’esterno, eserciterà una funzione prevalentemente “di controllo e di guida amorevole”. Se l’insegnamento tradizionale avviene nell’aula, la scuola creativa si fa soprattutto nei laboratori e nelle biblioteche ed avrà natura prevalentemente seminariale