[Karl Marx]

Karl Marx (1818-1883) è stato filosofo, economista ed anche (suo malgrado, perché non aveva grande considerazione per la disciplina) sociologo. Il suo pensiero ha però ha influenzato tutte le scienze umane, dalla psicologia all’antropologia, lasciando impronte significative anche in campi come la critica letteraria e la ricerca storica. L’unica influenza paragonabile è quella della psicoanalisi di Freud, con la quale ha in comune il fatto di mostrare come ciò che appare non sia comprensibile senza il riferimento ad una struttura sottostante: l’economia nel caso di Marx (come presto vedremo), l’inconscio per Freud. Insieme a Nietzsche, Marx e Freud sono per Paul Ricoeur i tre “maestri del sospetto”, coloro che hanno demolito le grandi certezze della filosofia moderna, a cominciare dalla coscienza, che da Cartesio in poi è il fondamento della certezza, e che ora si mostra anch’essa falsa e condizionata da elementi ad essa esterna. 
Il pensiero di Marx, elaborato in stretta collaborazione con Friedrich Engels (1820-1895) si presenta come una filosofia della prassi. Nelle Tesi su Feuerbach scrive: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi; ma il punto ora è di cambiarlo”. Per comprendere Marx non bisogna mai dimenticare che si tratta di un rivoluzionario. Le sue teorie, le sue analisi economiche e sociali, hanno sempre come obiettivo ultimo la trasformazione di una realtà che considera ingiusta ed inaccettabile. E’ un pensiero al servizio dell’azione. Per cambiare la realtà bisogna comprenderla, e per comprenderla occorre, per Marx, considerare le forze reali che agiscono in essa. 
Marx, che proviene dalla scuola dell’idealismo di Hegel (del cui pensiero restano tracce anche nella sua filosofia più matura), finisce per rovesciarlo interamente: la storia non è mossa per lui da alcuna forza ideale o spirituale (lo Spirito assoluto degli idealisti). La storia è fatta da uomini e donne concreti, che non possiedono una essenza astratta, ma sono quello che sono in base alle condizioni concrete in cui si trovano a vivere; condizioni che sono in primo luogo economiche.
Marx distingue - ed è una distinzione centrale nel suo pensiero - nella società la struttura dalla sovrastruttura. La struttura, l’elemento fondamentale, è costituita dall’economia e in particolare dai rapporti di produzione, ossia dal modo in cui in una data società gli individui si organizzano per produrre; la sovrastruttura consiste invece in tutti gli elementi per così dire culturali e spirituali di una data società: la morale, la religione, la filosofia, l’arte, il diritto, l’educazione eccetera. Questo vuol dire, ad esempio, che la filosofia di un pensatore come Aristotele non è pienamente comprensibile se non si considera l’economia del suo tempo e la sua posizione all’interno di essa. La sovrastruttura non è soltanto condizionata dalla struttura, ma tende anche a giustificarla: un filosofo come Aristotele, che occupa una posizione privilegiata in una società in cui esiste la schiavitù, considera gli schiavi come semplici strumenti. 
[George Grosz, Le colonne della società, 1925]
Tutte le società sono attraversate da conflitti dovuti alle differenze di classe conseguenti ai rapporti di produzione. In ogni tempo vi sono dominatori e dominati, padroni e schiavi, ricchi e poveri. Nella società attuale, caratterizzata dall’economia capitalistica, questo conflitto prende la forma della lotta di classe tra borghesia e proletariato. 
Nel suo capolavoro, Il Capitale, Marx presenta il capitalismo come un sistema economico fondato in ultima analisi sullo sfruttamento. Gli economisti avevano distinto valore d’uso e valore di scambio di una merce. Il primo consiste nell’utilità della merce, il secondo nella sua capacità di essere scambiata con altri beni e con il denaro. Ma da cosa deriva il valore di scambio di una merce? Per Marx, esso è il risultato del lavoro che è stato necessario per produrla. Ogni lavoratore impiega un certo tempo per produrre una merce, che sul mercato avrà un valore superiore al salario che lui ha ricevuto per il suo lavoro. In altri termini, esiste un plusvalore, una differenza tra la ricchezza che l’operaio produce ed il salario che riceve, e che finisce nelle mani del proprietario della fabbrica. Questo vuol dire che il capitalismo è un sistema fondato sullo sfruttamento dei lavoratori: da una parte c’è un proletariato poverissimo, sottoposto ad un lavoro massacrante e disumano, dall’altro una borghesia che si arricchisce alle sue spalle. 
Marx non ritiene che questa situazione possa migliorare per i lavoratori, con salari più alti e migliori condizioni lavorative. E’ convinto che il capitalismo sia un sistema destinato a crollare per le sue stesse contraddizioni. I capitalisti investono sempre più capitale nelle macchine, con le quali sostituire il lavoro umano ed affrontare la concorrenza. Questi investimenti fanno sì che il capitale si concentri sempre più nelle mani di pochi grandi capitalisti, mentre quelli più piccoli vengono travolti, mentre aumentano nel proletariato la disoccupazione e la povertà. In questo modo, scrive, diventa evidente che il capitalismo “non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo” (Il Capitale, libro III, capitolo 15). 
Hegel, maestro di Marx, riteneva che lo vita dello Spirito si svolgesse attraverso una legge particolare, la dialettica, che consta di tre momenti: la tesi, l’antitesi e la sintesi. In altri termini, ovunque si presentano delle contraddizioni, che vengono poi superate e conciliate in un terzo momento, che realizza una sintesi degli opposti. Marx ed Engels interpretano questa legge in senso materialismo, elaborando la teoria del materialismo dialettico, secondo la quale lo sviluppo storico, determinato come abbiamo visto da forze economiche, va compreso non come un processo lineare, ma come un cammino accidentato, fatto di continue contraddizioni che vengono superate. Sono queste contraddizioni che per Marx ed Engels porteranno alla crisi definitiva del capitalismo ed al suo superamento nella società comunista. L’unica via di uscita dalle contraddizioni del capitalismo è la rivoluzione dei proletari. Il Manifesto del partito comunista, scritto da Marx ed Engels nel 1848, termina con un invito all’"abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente": “Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare”. 

La società comunista 

Una volta fatta la rivoluzione, per Marx ed Engels occorrerà passare attraverso una fase transitoria di dittatura del proletariato, una forma di Stato interamente nelle mani del proletariato, che difenderà le conquiste della rivoluzione. Ma si tratta, appunto, soltanto di una fase. L’obiettivo della rivoluzione non è quello di creare uno Stato comunista, ma di realizzare una società libera e giusta. Per Marx ed Engels, lo Stato è sempre lo strumento adoperato da una classe sociale per dominarne un’altra. Nella fase di transizione si creerà uno Stato proletario, che attuerà le riforme necessarie, prima fra tutte l’abolizione della proprietà privata e la concentrazione di tutto il capitale nelle mani dello Stato. Successivamente, tuttavia, lo Stato stesso finirà per scomparire. 
La necessità di un Stato sussiste fino a quando esistono classi sociali, di cui una domina l’altra. Ma l’abolizione della proprietà privata porterà progressivamente alla scomparsa di ogni distinzione di classe. Non vi sarà più, dunque, alcuno Stato. “Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi antagonismi di classe - scrivono Marx ed Engels nel Manifesto - subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti.” 

L’educazione 


Marx ed Engels non si sono occupati di questioni educative. Nel Manifesto alcuni dei provvedimenti che lo Stato proletario dovrà prendere dopo la rivoluzione riguardano l’istruzione e il miglioramento delle condizioni dell’infanzia: “Educazione pubblica e gratuita per tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell’educazione e della produzione materiale, ecc.” Si tratta di indicazioni vaghe, che però contengono in nuce gli elementi fondamentali della pedagogia comunista. In primo luogo, l’educazione pubblica gratuita per tutti. Si tratta di un principio che era già stato affermato già all’inizio dell’età moderna da Comenio, ma che di fatto non aveva trovato realizzazione storica. Al tempo di Marx, l’accesso all’istruzione era riservato ai figli della classe borghese, mentre i bambini della classe proletaria erano condannati ad un lavoro precoce e massacrante. questo principio sarà riconosciuto nel corso del Novecento anche nei paesi capitalisti, che creeranno sistemi educativi aperti a tutti.

[Bambini operai riscuotono la paga in una fornace inglese. Illustrazione del 1871]

Per molto tempo, tuttavia, l’istruzione pubblica dei bambini delle classe povere resterà fortemente problematico, per via del carattere borghese della cultura scolastica. Marx ed Engels parlano di una abolizione del lavoro infantile, ma solo “nella forma attuale”. I due pensatori non sono contrari al lavoro dei bambini, ma solo alla forma di grave sfruttamento che esso assume nella società capitalistica. Nel Capitale (Libro I, cap. 8) denuncia le dure condizioni di lavoro infantile nei diversi tipi di industrie inglesi. Ecco ad esempio quello che accade nelle fabbriche di merletti (scrive citando un articolo di giornale): “Alle 2, 3, 4 del mattino bambini di 9 o 10 anni sono buttati fuori dai loro sudici letti e costretti a lavorare solo per la loro sussistenza fino alle 10, 11, 12 di notte, mentre le loro menbra si logorano, il loro aspetto diviene scheletrico, i lineamenti del viso si fanno ottusi e tutta la loro umanità s’irrigidisce in un torpore di pietra, la cui vista è orrenda”. Questo sfruttamento va eliminato, così come va eliminata ogni forma di sfruttamento. Ma non va eliminato il lavoro infantile. Occorre considerare che per Marx il lavoro è l’attività attraverso la quale l’essere umano si distingue dagli animali, trasforma la natura e si realizza storicamente. L’educazione dell’uomo muovo della società comunista non può dunque prescindere dal lavoro, come avviene nella formazione borghese. I due mondi della fabbrica e della scuola, del lavoro e dell’educazione, dovranno incontrarsi e contribuire insieme alla formazione dei bambini. 
Un ulteriore aspetto da considerare è la critica della famiglia, considerata una istituzione che non ha nessuna validità assoluta, ma nasce in stretta relazione con l’evoluzione della società capitalistica e risponde alle sue esigenze. La nascita della famiglia monogamica è storicamente legata, come mostra Engels in L’origine della famiglia, è legata al passaggio dal comunismo primitivo, con la proprietà comune, alla proprietà privata; solo con questo cambiamento economico è concepibile la distinzione tra una sfera intima, privata, ed una sociale e pubblica. Con l’avvento del comunismo e l’abolizione della società privata la famiglia (che implica anche il dominio dell’uomo sulla donna) non ha più senso. L’educazione non spetta più alla famiglia, ma alla società. Appena possibile, dunque, i bambini dovranno essere sottratti alle cure materne ed affidati ad istituti educativi pubblici. All’obiezione che in questo modo si elimina il rapporto intimo tra genitori e figli, Marx ed Engels nel Manifesto rispondono come segue: “Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro”.